E dentro, nevica!

Da Mizaar

Puntuale come ogni anno la forfora… pardon, la neve, ha ripreso a nevicare all’interno del blog, giusto per ricordarmi che tra una manciata di giorni siamo a Natale, con tutto quello che ne consegue – ah sì è vero, posso eliminare l’impiccio visivo, ma ho dimenticato come si fa quindi me la tengo, la forfora…sì, la neve! Giusto per non ripetermi potrei elencarvi una serie di articoli precedenti che hanno imperversato in lungo e in largo a proposito del Natale e delle sue conseguenze sul mio umore, ma tant’è, cliccando sugli archivi le geremiadi sono bell’e pronte e a portata di lettura. Però, proprio qualche giorno fa, parlando con il figlio più piccolo, facevo una rassegna pseudo psicologica sulle possibili motivazioni valide a giustificare la mia avversione verso il Natale. Dev’essere iniziata presto, quando il Natale casalingo era sempre attraversato da un vento lieve di malinconia dovuto a mia madre che, lontana dalla casa paterna dove il Natale si festeggiava tra tanti, zie, cugini, nonni, qui si ritrovava senza il supporto chiassoso di famiglie allargate a dismisura. Ed erano sempre Natali minimalisti, i nostri, fatti di piccole cose, rami di abete decorati da agrumi odorosi e aranciati, regali quasi inesistenti e tutti utili, dei calzettoni di lana gialli come mandarini, un piccolo cerbiatto di peluche con un meccanismo a molla che gli faceva vorticare la piccola coda e muovere ritmicamente il capo da un lato e l’altro.  Solo più tardi, tantissimi anni dopo, il dono ambito fu un bambolotto della dimensione di un bambino vero, poi ” seviziato ” da un vendicativo fratello più piccolo che in mancanza di meglio da fare tagliò le labbra al povero bambino! Unica concessione al ricordo, per mia madre, e forse al rimpianto, erano quei dolci fritti e passati nel miele e nelle codette colorate che venivano conservati in ” conchette ” di creta marezzata di verde e bianco, spesso coperti e messi a domicilio su un armadio, per via delle dimensioni davvero fuori misura del contenitore. Forse quelli dell’elaborazione dei dolci, erano gli unici momenti di ” festa ” personale, il momento in cui molto dopo fui coinvolta anch’io, le uniche due in casa in possesso della magia del fare odore di vaniglia e cannella, del passare piccole rose di pasta fritta nell’asprezza ubriaca e consistente del vino cotto. E adesso che il tempo è passato e la malinconia, anche quella, è passata di mano, come un testimone in una gara a staffetta, il vento è, a volte, una vera bufera che impera e si accompagna alla neve che dentro cade.