E' giusto non andare a votare? Il manifesto dei Ds nel 2003.

Creato il 12 giugno 2011 da Crazyideas

Così recitava il manifesto dei Ds al referendum del 2006, ed è stato ripreso dalle pagine di governoberlusconi.it.

La scelta di non recarsi a votare ai referendum è perfettamente legittima, e questa legittimazione viene proprio dalla Costituzione: la chiave di volta per togliere ogni dubbio è il quorum previsto dall'articolo 75: "Per l'abrogazione di una legge, la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi".

Il voto nei referendum per l'abrogazione delle leggi non può dunque essere paragonato al voto nelle elezioni, che l'articolo 48 della Costituzione definisce invece come un "dovere civico": c'è infatti un'ampia giurisprudenza costituzionale che non ritiene applicabile ai referendum questo concetto.

Un'autorevole conferma è venuta, in tal senso, dal Consiglio di Stato, secondo il quale nel caso dei referendum la non partecipazione al voto è "una manifestazione consapevole dell'atteggiarsi della sovranità" visto che, prevedendo un quorum di partecipazione, la Costituzione dà implicitamente per scontato che quella di non partecipare al voto, nei referendum per l'abrogazione delle leggi, sia nient'altro che una volontà legittimamente espressa. Quorum di partecipazione ed esercizio del diritto di non votare sono strumenti di difesa della legge dall'abrogazione, che potrebbe essere determinata, anche su questioni di grande importanza, da una minoranza molto ristretta di elettori.

Difatti, se partecipa alla votazione il 50 per cento più uno degli elettori, la maggioranza di essi, ammesso che tutti i votanti esprimano voti validi, determina l' abrogazione della legge. Basterebbe dunque il voto del 25 per cento del corpo elettorale per abrogare una legge, anche se questa è stata approvata da una consistente maggioranza in Parlamento.

Non votare è dunque uno strumento che possono usare coloro che intendono mantenere in vita la legge, e che possono ottenere questo risultato non soltanto votando no, ma anche non partecipando al voto.

Tutte le polemiche di questi giorni sull'astensionismo appaiono quindi strumentali e faziose: l'astensione consapevole, diretta ad escludere che il referendum raggiunga il quorum previsto perché abbia effetto, non è una fuga irresponsabile alle urne né una scorrettezza civica, ma una scelta pienamente legittima. Una scelta, peraltro, che molti degli sponsor politici degli attuali referendum hanno praticato in passato.

In occasione del referendum del 2003 sull'articolo 18, ad esempio, i Ds realizzarono un manifesto per invitare all'astensione con una sola grande scritta: "Non".

Fassino dovette difendersi dall'accusa di incoerenza quando, in occasione dei referendum sulla fecondazione assistita, sostenne che andare a votare era un dovere, ma la sua giustificazione fu molto debole: "Stavolta stiamo parlando della trasmissione della vita, è un tema un po' più grande dell' articolo 18. Astenersi adesso stabilisce il principio di immodificabilità della legge, e crea un pericoloso precedente per la democrazia".

Anche Bersani, responsabile economico della Quercia, dovette qualche spiegazione: "Sull'articolo 18 noi Ds ci astenemmo, è vero, ma stavolta in discussione c'è un'altra cosa". Ma un principio non può valere una volta sì e l'altra no, seconda delle convenienze politiche, ma vallo a spiegare alla sinistra che cerca di piegare sempre tutto ai propri interessi.

Ultima annotazione: perfino Marco Pannella, il padre dei referendum, sposò il fronte dell'astensione per quello sulla scala mobile, nel marzo del 1985. E allora, i soloni referendari di oggi usino un po' di prudenza in più prima di sparare giudizi, non solo per ritrovare un minimo di coerenza, ma anche per decenza.