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E i terremotati tornano al lavoro: se non ripartiamo, le aziende delocalizzano

Creato il 31 maggio 2012 da Nicola Spinella @ioparloquantomi

Meglio rischiare la vita, che il posto di lavoro: i timori degli operai sono tutti per le aziende colpite dal sisma, che potrebbero decidere di andar via dall’Italia. Con la scusa del terremoto.  Intanto la magistratura indaga sul crollo dei capannoni, che potrebbe ripetersi…

 

Gli operai padani tornano nei capannoni e nelle fabbriche, dopo il disastro si cerca un ritorno alla normalità che coincida con la ripartenza degli impianti produttivi per scongiurare un incubo: la temuta delocalizzazione in distretti industriali che possono beneficiare di regimi fiscali agevolati, per incentivare una produttività che serva da volano per le stagnanti economie dell’Europa battuta dalla crisi.

Si ritorna a produrre, in Emilia: è una forma di sordido ricatto, è una quantificazione del valore della vita di ciascun operaio. La terra si ferma, serve immediatamente un impulso produttivo che riporti la situazione alla normalità. Oltre alla paura, generata da rumori e tremori, si aggiunge quella di poter perdere la fonte di sostentamento.

Fonderie, fabbriche, caseifici: le aziende provano a ripartire, con i rischi annessi. Capannoni industriali pronti a cedere sotto la spinta della prossima scossa sismica, l’intera forza produttiva emiliana pronta a rischiare la pelle per non vedersi privata del diritto al lavoro. Solo la FIOM sta provando a difendere il diritto alla vita di chi non vuole tornare al lavoro, ma le aziende possono riprendere la produzione, sotto la responsabilità civile e penale di chi dispone la riapertura a seguito di un sopralluogo di natura tecnica. Chi non vuole rientrare a lavoro non deve sentirsi obbligato: una possibilità di scelta che suona come una condanna a morte.

Sarà la magistratura a stabilire le responsabilità per la morte dei lavoratori rimasti sotto le macerie dei due cataclismi che si sono succeduti in un brevissimo intervallo di tempo. E’ probabile che la proverbiale produttività emiliana abbia preferito dirottare sulla produzione i fondi che avrebbero dovuto essere impegnati nella pianificazione antisismica. Il risultato è che molti capannoni si sono accartocciati su sé stessi, con notevole dispendio di vite umane. Sempre la solita logica del primato dell’economia: meglio un uomo morto che una commessa non onorata, meglio investire nella produzione che salvaguardare la sicurezza dei luoghi di lavoro.

Rassegnamoci: la vita umana non può ambire ad essere considerata un bene supremo, è solo un elemento che deve contribuire all’ingrasso di chi investe il capitale. Un perfetto esempio di decadenza sociale, morale, culturale dei tempi che stiamo vivendo.

E adesso? Alcuni potrebbero decidere di spostare all’estero la produzione e cavalcare la tigre del terremoto.

Delle carni dilaniate degli operai, che hanno lasciato per sempre le famiglie onorando fino all’ultimo l’impegno lavorativo, non importa a nessuno: tanto, in Serbia, con 150 euro al mese mantieni un operaio specializzato, felice, sottomesso, senza sindacati tra le scatole.

Scappiamo via, dunque: e dietro lasciamoci solo morte, macerie ed indegnità morale.

Dio non voglia che le previsioni catastrofiste, apparse un po’ ovunque in questi giorni, si verifichino. E se succedesse, forse è meglio non saperlo prima: alle brutte, sarebbe sempre un principio utilitaristico a dettar legge. Se spostare la popolazione di Reggio Calabria in un luogo sicuro costasse 100.000 euro e rimuovere macerie e cadaveri della stessa città ne costasse appena 80.000, cosa credete che verrebbe scelto da chi di dovere?


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