“Il presidente Obama ha concluso il discorso, è sceso dal palco, è stato scortato in un corridoio laterale dove si è accasciato su una sedia appogiata al muro. Ha portato entrambe le mani ai lati della testa, la quale era sporta in avanti fin quasi a toccare le ginocchia. Ai lati della faccia si vedevano solchi nei punti in cui il trucco di scena era stato cancellato dalle sue mani. In questi giorni si mette quella roba ovunque vada. E’ arrivato un membro dello staff, si è chinato verso il presidente e gli ha detto che era ora di andare. Il presidente ha guardato in su, ha accennato un sorriso e si è rimesso in piedi lentamente. Molto lentamente. L’unica parola che ha detto è stata “sì”. Non c’era entusiasmo. Da lui non veniva nessuna energia. Le persone intorno al presidente sembravano ignorare le sue condizioni. Lo osservavano come se non ci fosse, fino a quando ha iniziato ad attraversare il salone per dirigersi verso l’esterno. Lo hanno seguito standogli a fianco ed è sembrato quasi che lo spingessero fuori dal portone. Il presidente appariva incredibilmente stanco. Usato”.
Questa è la descrizione di Barack Obama fornita negli ultimi giorni da un insider della Casa Bianca. E’ l’immagine di una marionetta decrepita, consunta e con i fili usurati, in procinto di essere sostituita dal puparo con un fantoccio di nuova fabbricazione. Con la deliziosa differenza letteraria che le marionette di carne, a differenza di quelle di plastica e legno, hanno la coscienza della rottamazione imminente e ne provano disperazione. Il nervosismo da fine spettacolo pare contagiare anche i più stretti congiunti del presidente-fantoccio, se è vero – come riporta lo stesso articolo – che la stessa First Lady si lascia andare, sempre più di frequente, ad esibizioni d’isterismo sguaiato, con strepiti ed urla da mercato del pesce rivolte verso i membri dello staff. Più che nelle gelide stanze di vertice della maggiore superpotenza globale, sembra di essere in una biografia svetoniana o negli uffici di un’azienda in amministrazione controllata poco prima di un apocalittico taglio del personale. E se questa è la situazione al vertice, lascio immaginare quale possa essere il clima nei camerini dei servi di scena, a Palazzo Madama, Palazzo Grazioli, Montecitorio…
Che Obama fosse una marionetta del tutto impotente, manovrata in ogni sua mossa dalle elite che realmente gestiscono il potere dello stato americano – e prima o poi occorrerà riflettere su cosa debba intendersi, in concreto, quando si parla di “stato” – è certamente una scoperta dell’acqua calda per i lettori di questo e di altri blog. Tuttavia ho voluto riportare questa testimonianza di un osservatore diretto, sia perché essa riesce a fornire una nitida sintesi visiva di una realtà che noi tutti immaginiamo, ma che spesso ci rappresentiamo solo in astratto; sia perché lo spleen di Obama dietro il palcoscenico è, a livello più ampio, un simbolo impietoso del declino economico, politico e culturale non solo di un uomo, ma di una nazione, di una visione del mondo, di un’epoca intera.
La “carta Obama” era stata giocata bene e aveva ottime possibilità di risollevare, almeno sul piano dell’immagine, le sorti del grande circo statunitense in bancarotta. La “grande innovazione” del primo nero alla Casa Bianca era stata accolta negli ambienti del popolastro ebete di sinistra con innumerevoli “oh” e “ah” di ammirazione incondizionata. A volte basta poco per fare felici i mocciosi. Purtroppo per gli impresari dello spettacolo, non basta costruire una marionetta nuova e attraente per rinverdire i fasti di una rappresentazione costretta ad operare su un canovaccio decrepito, su uno scenario logorato oltre ogni immaginazione, all’interno di una struttura che perde credibilità e calcinacci ad ogni respiro del pubblico. Non c’è sospensione dell’incredulità che possa ridar fiato ad una recita che vorrebbe proporsi come innovativa e che invece ammannisce agli spettatori le stesse guerre, gli stessi massacri goffamente nascosti dietro il velo consunto della “democrazia”, le stesse soperchierie economiche internazionali, la stessa politica genocida e prepotente. Con l’aggravante che la prepotenza arriva adesso da una vecchia bestia senza più denti, che non può più aggredire in proprio altre nazioni sovrane, ma solo per mezzo dei propri sguatteri, i quali iniziano a reclamare maggiore peso nella spartizione delle carogne. Non si vede più, dietro la consueta politica di sterminio criminale del leone incartapecorito, una strategia globale coerente, un progetto che, per quanto sanguinario, miri almeno ad una ricomposizione degli equilibri nella prospettiva del ripristino di una vivibilità internazionale di medio periodo. Ormai in dialisi e con la prostata recalcitrante, la bestiaccia crepuscolare sguinzaglia i suoi lanzichenecchi in giro per il globo, riuscendo solo a creare caos a profusione, nella scellerata e vana speranza che il caos riesca ad intralciare per qualche ora i suoi nemici in ascesa e a garantirgli un attimo di respiro per elaborare una strategia degna di questo nome. Una strategia che, al momento, nessuno sembra in grado nemmeno di immaginare.
Può essere interessante, in questo senso, mettere a confronto la stanchezza umana ed ideologica della superpotenza in declino, con il dinamismo evidenziato dai rappresentanti delle elite delle nazioni in ascesa. Ad esempio, per quanto riguarda la Cina, giunge notizia che il Senato americano avrebbe intenzione di approvare una serie di dazi doganali contro le merci cinesi, per contrastare il crollo delle esportazioni americane in oriente, nonché per scongiurare un’ulteriore restrizione del mercato interno, a seguito della svalutazione dello yuan. Nel corso dell’estate, diverse aziende americane, come la Solyndra, che fabbrica pannelli solari, hanno chiesto la procedura di bancarotta, non riuscendo più a competere con le aziende cinesi che riescono a fabbricare beni con costi di gran lunga inferiori. Il senatore USA Harry Reid, ha dichiarato, con incredibile faccia di tolla, che “gli interventi deliberati per svalutare la propria moneta, danno alle merci cinesi un ingiusto vantaggio competitivo sui mercati”. Ma senti senti da che pulpito… in tutto il periodo in cui sono stati gli USA a svalutare il dollaro fino al valore di cartaccia pur di rendere un po’ più appetibili le cianfrusaglie americane sui mercati occidentali, nessun senatore americano ha sentito il bisogno di aprire bocca. Ora che i cinesi hanno copiato il trucco, tutti ad invocare la “giustizia” e l’equità nella competizione commerciale.
I piagnistei, purtroppo per Reid, non faranno altro che accrescere la percezione della debolezza politica irrimediabile del suo ormai decotto paese. La mozione del Senato americano è una mossa puerile, dalle connotazioni puramente difensive e dagli esiti incerti, non essendo gli USA in grado di sfidare apertamente, sul piano economico, una nazione che detiene circa 800 miliardi di dollari del debito americano. L’unica chance sarà, prima o dopo, quella di una sfida apertamente militare, che gli USA non sembrano attualmente in grado neppure di concepire e alla quale potrebbero, sperabilmente, non sopravvivere.
Jim Rogers, investitore americano con sede a Singapore, ha preconizzato esattamente questo scenario: “Se questa diventerà una guerra commerciale”, ha detto Rogers, “allora si tratta dell’evento più rilevante del 2011. Le guerre commerciali sfociano sempre in guerre effettive. Nessuno vince mai le guerre commerciali, se non i generali che si ritrovano a combattere le guerre materiali quando esse scoppiano. Tutto questo è molto pericoloso”. A giudicare dalla reazione decisa di Pechino alla debole iniziativa statunitense, il pericolo sembra allignare soprattutto negli ambienti di Washington. Il portavoce del ministero degli esteri cinesi, Ma Zhaoxu, ha dichiarato che “La Cina si oppone inflessibilmente a questa normativa” ed ha concluso invitando gli Stati Uniti a “guardare le relazioni economiche tra Cina e Stati Uniti da un punto di vista più ampio”, con un’allusione neanche tanto velata agli effetti che una simile mossa potrebbe avere sul finanziamento del debito americano da parte della Cina. Nel frattempo, un rapporto dell’Istituto Internazionale di Stoccolma per la Ricerca sulla Pace (SIPRI) rivela come la Cina si stia preparando a uno scenario di conflitto conclamato, rendendo sempre più indipendente dalle forniture russe il proprio apparato militare. Negli anni seguiti alla caduta dell’URSS, Pechino importava dalla Russia oltre il 90% delle proprie armi convenzionali. Ma quest’importazione di armamenti si è ridotta della metà già nel 2007, quando la Cina ha implementato le tecnologie per fabbricare in proprio il materiale bellico che le è necessario, e ha continuato a ridursi nel 2009 e nel 2010. La stessa indipendenza viene ricercata dalla Cina nell’approvvigionamento energetico (e infatti, come spiegava F. William Engdahl in questo articolo, è proprio il tentativo di ostacolare la politica energetica cinese in Africa che ha spinto gli USA a progettare le rivoluzioni colorate di quest’anno e a imbarcarsi nella guerra “proxy” contro la Libia).
Mentre la Cina ruggisce e il presidente americano piagnucola su una seggiola, anche la Russia si mostra sempre più intraprendente. Proprio ieri Vladimir Putin, in un articolo pubblicato sul quotidiano russo Izvestia, ha reso note le direttive di politica estera che ha intenzione di intraprendere, mentre si accinge a ritornare al Cremlino da presidente. Putin ha reso noto che dal 1° gennaio 2012 verrà implementato il già esistente progetto di integrazione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan, eliminando ogni barriera ai movimenti di merci, capitali e forza lavoro tra questi tre paesi e creando un punto di riferimento non solo per questi ultimi, ma anche per tutti gli Stati post-sovietici. “Non ci fermeremo qui”, ha aggiunto Putin, “e stiamo perseguendo un obiettivo ambizioso: realizzare un livello d’integrazione ancora maggiore nell’ambito di un’Unione Eurasiatica”. Nell’articolo, Putin dichiara esplicitamente di intendere questa unione doganale come una piattaforma di lancio verso un più ampio progetto eurasiatico, volto ad attuare ogni possibile strategia diplomatica per creare un ponte politico-commerciale verso l’Europa, non solo in direzione degli stati ex-sovietici. “La partecipazione ad una Unione Eurasiatica”, ha detto Putin, “oltre ai diretti benefici economici, consentirebbe ai suoi membri di integrarsi in Europa più in fretta e a partire da una posizione di forza assai maggiore”. Se a pronunciare queste parole fosse un leader occidentale, sarebbe legittimo sospettare che si tratti di pura propaganda elettorale, di chiacchiere al vento. Ma Putin non ha bisogno di propaganda elettorale, non avendo, di fatto, alcun rivale nella corsa al Cremlino. Le sue dichiarazioni rappresentano una linea programmatica, un’aperta sfida politica alla strategia statunitense, rivolta ad accerchiare militarmente la Russia attraverso la cooptazione degli ex paesi satellite dell’URSS sotto l’egida della NATO.
Sembra che Putin intenda sfruttare la debolezza evidenziata dagli USA nelle loro avventure militari (ultima quella libica), abbandonando la strategia puramente difensiva e rilanciando aggressivamente la posizione russa attraverso una proposta di cooperazione commerciale che, in tempi di crisi economica ed energetica, non può non esercitare una forte attrattiva su molti paesi europei.
Si potrà obiettare che il progetto eurasiatico di Putin è al momento un Eden di cartapesta, uno slogan velleitario, non più plausibile nel concreto dell’allucinatoria “democrazia” americana. Può darsi. Però è uno slogan che ha tutte le carte in regola per attirare su di sé le speranze dei popoli europei e l’interesse degli operatori economici e commerciali del continente, per i quali la fatiscente “democrazia” è ormai solo sinonimo di guerra, massacri, destabilizzazione politica ed economica, strangolamento finanziario, bancarotte, povertà diffusa, degradazione culturale, immigrazione incontrollata, criminalità in aumento, svuotamento di significato delle istituzioni politiche e, in generale, asservimento delle nazioni a direttive suicide sovranazionali. E’ verosimile che l’attrattiva di un progetto eurasiatico, se portato avanti con determinazione, risulti di gran lunga maggiore della prospettiva di accettare, impotenti, le direttive devastanti di una marionetta piagnucolosa e incapace, abbandonata nel retrobottega di qualche remoto palcoscenico d’oltreoceano a lasciarsi colare il cerone sulla faccia.