Il recente libro di Stefano Zamagni, Impresa responsabile e mercato civile, il Mulino, affronta un tema sul quale la scienza economica si è interrogata negli ultimi decenni, non senza una certa riluttanza: la responsabilità sociale dell’impresa. Nella sua accezione “debole o minimalista”, questo concetto si limita a esprimere l’idea di un buon management, che includa una strategia di gestione rispettosa dell’etica, delle persone, dell’ambiente. In senso costruttivista, o olistico, invece il concetto presuppone l’esistenza di due elementi. Da una parte c’è il contratto sociale tra impresa e stakeholder, interni ed esterni. Dall’altra c’è la natura riflessiva dell’impresa, ossia il carattere di ente morale, che sia in grado di rispecchiare e potenziare i valori del contesto in cui è inserito. Nonostante le resistenze della dottrina neoliberista, e grazie ad alcuni interventi delle istituzioni sovranazionali (Unione Europea ed organizzazioni internazionali), il principio della corporate social responsibility,[1] inteso in senso costruttivista, si è progressivamente affermato anche a livello legale. Ne è un esempio il documento della Commissione Europea Nuova strategia UE 2011-2014 per la responsabilità sociale dell’impresa, che mette in relazione la responsabilità sociale con l’impatto che le imprese hanno sulla società.
Secondo Zamagni l’ancoraggio etico della responsabilità sociale dell’impresa non può essere quello, di matrice deontologica kantiana, delle intenzioni (“l’impresa è responsabile perché creando ricchezza consente a soggetti rettamente intenzionati di perseguire i loro scopi”, p. 89); né quello delle conseguenze, sia pur nella versione più avanzata dell’auto-interesse illuminato (enlightened self-interest: l’azione dell’impresa è buona se sono buone le conseguenze). L’aggancio etico non deriva nemmeno dalla responsabilità in quanto tale (l’impresa è responsabile degli effetti prevedibili della sua azione). Né deriva infine da una natura neo-contrattualista (l’impresa deve rispettare il contratto sociale fra tutti gli stakeholder). La responsabilità sociale dell’impresa deriva semplicemente dall’etica delle virtù.
L’aggancio alla teoria etica delle virtù consente all’autore di andare oltre il concetto di responsabilità sociale, suggerendo la prospettiva di una impresa civilmente responsabile.
Questa impostazione ha una portata rivoluzionaria. Non solo perché include definitivamente l’etica all’interno della governance societaria, ma perché sovverte l’idea (sedimentata) secondo la quale la motivazione dell’imprenditore, e quindi la finalità principale dell’impresa, sia la massimizzazione del profitto. Scrive Zamagni, citando il pensiero di D.W. Lutz: “il merito dell’etica delle virtù consiste tutto nella sua capacità di risolvere, superandola, la contrapposizione fra interesse proprio ed interesse per gli altri, fra egoismo ed altruismo” (p. 103).
Il futuro di un capitalismo veramente consapevole è nella risposta alla domanda se possa esservi una responsabilità civile dell’impresa e se quindi possa esistere un capitalismo “virtuoso”, che sappia coniugare profitto e funzione sociale. L’impresa civilmente responsabile è infatti quella che “si adopera, con gli strumenti a sua disposizione, al fine di accelerare il passaggio da un assetto istituzionale di tipo estrattivo ad uno di tipo inclusivo” (p. 119). Una tale impresa tiene conto delle esigenze e della identità di tutti gli stakeholder, anche di quelli che non possono far sentire la loro voce (limite della teoria neocontrattualista), e concorre in questo modo a democratizzare il mercato. Gli strumenti a sua disposizione non mancano. In primo luogo, la capacità di incidere con dispositivi di soft law (diritto non autoritativo) in ambiti significativi come quello della tutela dei diritti umani. Si pensi al ruolo delle multinazionali nell’outsourcing di alcune produzioni (Nike, Apple, ecc.); o alla possibilità del diritto societario globalizzato di ignorare le differenze tra legislazioni nazionali.
Il vocabolario della governance societaria dovrebbe arricchirsi di nuovi termini: bene comune, virtù, benevolenza, reciprocità, cooperazione; intesa quest’ultima come una alternativa alla competizione, che caratterizza le dinamiche del mercato.
Idealismo o, peggio ancora, utopia? Non proprio. Le tesi dell’A. sono in linea con alcuni studi internazionali che inseriscono nel core business dell’impresa il concetto di valore condiviso[2], p. 144). In effetti, a risultare anacronistico – ma anche irrealistico – è il pessimismo antropologico dell’homo oeconomicus, inteso unicamente come bad man (Holmes), quindi come essere incapace di compiere scelte altruistiche. Il futuro dell’impresa potrebbe invece inserire la sua azione ed i suoi obiettivi all’interno di un circuito virtuoso di sussidiarietà circolare, che veda tutti gli attori istituzionali e privati impegnati nella ricerca di un benessere il più possibile condiviso.
3 / 3 / 2014
[1] Zamagni ricorda che l’espressione è di origine statunitense e la attribuisce a Howard B. Bowen, che in un saggio del 1953 individuava il significato della responsabilità sociale degli uomini di affari nel perseguire quelle politiche ed adottare quelle linee di azione “che sono desiderabili rispetto agli obiettivi ed ai valori della nostra società”, p. 9.
[2] Porter M.E., Kramer M.R, “Creating Shared Value”, in Harvard Business Review, 2011, 1-2, cit. da Zamagni.
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