E se Freud fosse stato un fotografo?

Da Daniele Vannini

Parliamo di...editing.
Quando si parla di editing fotografico si prendono in esame tutte quelle operazioni post scatto che, partendo dalla primaria fase di scrematura delle immagini, arrivano alla creazione del prodotto finito con la sua relativa collocazione (stampa fine art, vendita su quotidiano o periodico, condivisione web o semplice archiviazione).
Un buon editing fa, senza possibilità di controbattere, la differenza tra un lavoro mediocre e uno di qualità, e questa verità (non solo questa in realtà) fa la differenza tra l'essere un fotografo e il credere di esserlo.
Non si tratta semplicemente di scegliere quella foto piuttosto che quell'altra.
Si tratta invece di creare un corpo nuovo a se stesso, con una propria vita e una propria ragione d'essere.
E' uno studio approfondito sull'essenza del nostro operato fotografico, sulle nostre volontà e sul modo di renderle al meglio agli occhi del nostro osservatore.
Detto questo, per me doveroso, non è mio interesse fare una trattazione tecnica sull' arte dell'editing, primo perché ci vorrebbero ore e ore di scrittura da parte mia e di lettura da parte vostra, secondo (più preponderante) perché sarei tanto presuntuoso quanto poco in grado nel farlo.
Vorrei parlare, invece, di un aspetto secondario legato all'editing ma altrettanto intenso e significativo: l'aspetto personale.
Come abbiamo detto, l'editing nasce con lo scopo di valorizzare il nostro lavoro fotografico, e di renderlo appetibile agli occhi altrui.
Si pone quindi come attività di scambio e contatto tra noi, il nostro operato e il nostro interlocutore.
Ma, oltre a questo, l'editing può offrirci la capacità di indagare su noi stessi, sulle nostre attitudini, sui nostri umori e sull'approccio con il mondo che ci circonda.
In altre parole, è come se facessimo una seduta di psicoterapia totalmente autonoma e...gratuita.
Ammetto questo modo di vedere l'editing possa apparire un pò estremizzato, ma come ci sono arrivato io semplicemente operando sulle mie foto penso possa essere lo stesso anche per qualcun altro.
Tralasciando i commissionati che, spesso e volentieri, sono adulterati dalle richieste dei clienti, tutto nelle NOSTRE foto parla di noi.
Non è semplicemente una questione di gusti o di estetica. E' molto di più.
Per esempio, l'inquadratura.
L'inquadratura è la vera anima della fotografia, il modo in cui decidiamo di rappresentare il nostro soggetto agli occhi altrui.
Ho notato che, personalmente, quando sono triste, confuso o in qualche modo preoccupato, tendo a preferire maggiormente le inquadrature centrali, statiche e dirette piuttosto che quelle decentrate e dinamiche, mentre quando sono positivo, energico e propositivo mi comporto esattamente al contrario, e punto molto di più sull'introspezione che sulla rappresentazione.
Ma cosa significa realmente? in primo luogo, che tutta la fase fotografica è stata concentrata su questo a mia insaputa.
Dalla scelta della focale e del punto di ripresa, al rapporto tra primo piano e sfondo e così via. Tutte operazioni fatte in automatico emerse successivamente grazie alla preziosa fase di editing.
In secondo luogo, che anche la scelta dei soggetti è stata operata in base a questa precisa condizione emotiva.
Facendo un'iperbole, se prima fotografavo solo persone e di punto in bianco inizio a dedicarmi esclusivamente ai paesaggi qualcosa dovrà pur significare, e ritengo sia troppo banale una risposta del tipo "amo la natura".
La motivazione è molto più viscerale.
La stessa cosa vale per la scelta delle focali e, soprattutto, per le modalità di utilizzo.
Prendiamo il grandangolo.
Possiamo utilizzare una focale corta per avvicinarci molto e fornire una visione più partecipativa, quasi grottesca della scena, o per contestualizzare il nostro soggetto e creare una storia nella storia (mi rifiuto categoricamente di scrivere il grandangolo serve per riprendere tanta roba e fare i paesaggi…).
Rispettivamente, sono più portato al primo approccio quando sono sereno, mentalmente libero (nei limiti concessi) e curioso, mentre preferisco il secondo quando sono più pensieroso, interrogativo e serioso.
Così come la scelta tra colore e bianco e nero, che non vuol dire convertire un'immagine tramite photoshop bensì significa vedere fotograficamente a colori piuttosto che in scala di grigio.
In questo caso, entrano in gioco le capacità comunicative dei contrasti e delle tonalità.
Preferisco il contrasto caldo/freddo, e quindi scatto a colori, se sono di buon umore e vitale, ma posso anche cercare le sovraesposizioni, le alte luci volutamente bucate e i toni da polaroid se sono malinconico e irrequieto.
Se sono girato (leggi incazzato) preferisco i contrasti netti del bianco e nero, fino al punto di soglia, che trasmettono forza e arroganza, ma lo stesso vale se sono introspettivo e indagatore.
Ma, a parte questo, quale é il vero valore aggiunto di questa considerazione? a che serve realmente sapere cosa scatena in noi certe scelte fotografiche, oltre al fatto di psicanalizzarsi a costo zero? per esempio, è utile per capire cosa fotografare e come fotografarlo in base alla propria condizione emotiva.
Soprattutto, è utile per scegliere determinati progetti piuttosto che altri.
Certo, non si può fare di tutta l'erba un fascio. Non significa tutte le nostre foto siano scattate in funzione di questo, e non significa tutti i nostri progetti potranno sempre viaggiare in perfetta sintonia con umori e stati d'animo (magari).
Significa però, e qui torno a parlare al singolare, che una simile consapevolezza ho potuto raggiungerla, capirla e metterla per iscritto grazie ad una accurata (anche se in continuo raffinamento) attività di "editing introspettivo".
Non basta scattare fotografie, bisogna anche studiarle, comprenderle e trovarne la giusta collocazione per gli altri e per noi stessi.
Per questo mi viene da chiedere: …e se Freud fosse stato un fotografo…? peccato non lo sapremo mai.