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E se il C.T. della Nazionale fosse Giacomo Leopardi? (by Bruce Wayne)

Creato il 24 agosto 2013 da Simo785

E se il C.T. della Nazionale fosse Giacomo Leopardi? (by Bruce Wayne)

Dall’archivio del Bar Frankie, pubblicazione originale del Novembre 2012.

Molto probabilmente non ci ricorderemmo di Carlo Didimi, un carbonaro e patriota di origini marchigiane, se Giacomo Leopardi non gli avesse dedicato una canzone nei suoi Canti. Ma – ed è questa la cosa interessante – il poeta de L’infinito ce lo ha reso celebre non in quanto patriota, bensì in quanto calciatore. Già, perché il componimento ad egli dedicato non rientra nel novero delle canzoni “civili” che Leopardi ha introdotto nei Canti (e cioè, non forma un “tridente” con All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze), ma si intitola A un vincitore nel pallone, ed è una sorta di incitamento rivolto al Didimi calciatore ad eccitare, con le sue prodezze, la fantasia dei suoi sostenitori. Non si tratta di un episodio isolato nell’officina poetica e filosofica di Leopardi. Oltre che nello Zibaldone, infatti, dove a più riprese il poeta e pensatore recanatese si sofferma in riflessioni sul valore dello sport, c’è anche un abbozzo poetico lasciato incompiuto, intitolato Dell’educare la gioventù italiana, dove sono presenti, in forma embrionale, diversi spunti che A un vincitore nel pallone porterà a compimento. Il che lascia pensare che per Leopardi l’attività sportiva avesse un’importanza forse non centralissima, ma certo non marginale.

Del resto, anche leggendo soltanto A un vincitore nel pallone, si avverte chiaramente il fatto che l’autore delle Operette morali non intendesse, con quei versi, limitarsi a celebrare le imprese sportive del Didimi, ma che volesse piuttosto offrire di esse una lettura strutturata su almeno due livelli. Un primo livello è quello che, su due piedi, definirei poetico-filosofico, ed è quello relativo alla funzione dello sport e delle figure eroiche che sa produrre alla luce della concezione leopardiana della vita. Un secondo livello – strettamente legato al precedente – lo definirei civile-patriottico, e riguarda il rapporto tra attività sportiva ed identità nazionale. Vediamoli entrambi.

 

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In primo luogo, dai versi di questa poesia emerge il fatto che per Leopardi lo sport è un’attività che comporta impegno e fatica: la “sudata virtude” (v. 4) contrapposta al “femminile ozio” (v.3). E fin qui, diciamocelo pure francamente, non ci sembra di leggere nulla che un qualsiasi sportivo, anche dilettante, potrebbe dirci con una cognizione di causa anche superiore a quella del poeta-filosofo marchigiano. Ma, appunto, non ci sembra nulla di notevole, perché in realtà concetti del genere, espressi da Giacomo Leopardi, hanno un significato molto più profondo ed articolato di quanto non appaia a prima vista. Perché alla fin fine qualsiasi sport altro non è che un gioco, e cioè un’attività il cui scopo non è – non dovrebbe essere – il raggiungimento di un obiettivo pratico come, per esempio, un posto di lavoro. Che senso ha, dunque, impegnarsi ed affaticarsi per un gioco, il quale anzi dovrebbe essere proprio un’evasione dall’impegno e dalla fatica?

La risposta a questo interrogativo Leopardi la offre ai versi 26-39, dove dopo aver rievocato la battaglia di Maratona si lancia in una serie di domande retoriche (“Vano dirai quel che disserra e scote / della virtù nativa le riposte faville? e che del fioco / spirto vital negli egri petti avviva / il caduco fervor?”, vv. 26-31) e conclude: “A noi di lieti / inganni e di felici ombre soccorse / natura stessa: e là dove l’insano / costume ai forti errori esca non porse, / negli ozi oscuri e nudi / mutò la gente i gloriosi studi” (vv. 34-39). Il che, detto in soldoni, suona come un: non può dirsi inutile quell’occupazione (nel caso specifico: lo sport) che, pur non avendo un vero e proprio scopo pratico, ci consente di alleggerire, anche solo per un breve lasso di tempo, il peso dell’esistenza e di sentire nuovamente il piacere di essere al mondo. Tutte sensazioni, queste, che l’ozio non può assicurare, visto che in esso noi percepiamo con più chiarezza la sostanziale vanità di tutte le cose. Nello sport, infatti, ad essere coinvolti sono corpo e mente, forza fisica e volontà, entro

uno schema in cui siamo chiamati a dare, sia pur in maniera “rilassata”, una prova di ciò che siamo e del nostro valore.

Questi medesimi concetti Leopardi li ha epressi nel pensiero 115 dello Zibaldone, datato 7 giugno 1820 (è bene tenere presente che A un vincitore nel pallone risale al novembre dell’anno successivo). Si tratta di un testo la cui chiarezza mi induce a pensare che, forse, è il caso di leggerlo, per poi passare al secondo punto: “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor della gloria ec., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo (…) insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni”.

 

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La citazione zibaldoniana si chiude, come abbiamo letto, con un riferimento all’eroismo delle nazioni. Un concetto, questo, che puo’ suonare strano in Leopardi, specie se ci accostiamo a lui avendo in mente l’immagine divulgatane tra i banchi di scuola. Ma in effetti chi conosce, anche superficialmente, l’opera del grande recanatese, sa bene che riferimenti all’amor di patria ed agli slanci eroici non sono affatto infrequenti nella sua scrittura. Le gia’ menzionate canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante sono universalmente riconosciute come “patriottiche”, e l’idea dell’italianita’ torna ad essere dominante in uno scritto di teoria letteraria come il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica ed uno scritto politico-civile come il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Leopardi, insomma, avvertiva con forza i problemi della vita pubblica, e non si limitava a cercare l’infinito sul celebre “ermo colle”.

Ebbene, questo genere di preoccupazioni fa il proprio ingresso anche in A un vincitore nel pallone, che non per nulla – come ho detto prima – riprende e sviluppa i temi abbozzati in Dell’educare la gioventu’ italiana. Gia’, perche’ per Leopardi lo sport ha un valore educativo, offre esempi alle persone. E’ un po’ come l’utile dulci (la medicina amara che viene resa tollerabile a chi deve assumerla cospargendo di miele i bordi del bicchiere in cui e’ contenuta) teorizzato dal poeta latino Lucrezio millenni prima. E, cioe’, e’ un modo sereno e piacevole per insegnare alle persone a stare al mondo nel modo migliore possibile. Non per nulla, immaginando di rivolgersi a Carlo Didimi, in questa poesia Leopardi scrive: “Alla patria infelice, o buon garzone, / sopravviver ti doglia. / Chiaro per lei stato saresti allora / che del serto fulgea, di ch’ella e’ spoglia, / nostra colpa e fatal” (vv. 53-57). E, cioe’, gli dice che se fosse vissuto in un’Italia diversa, non divisa in Stati e staterelli e non soggetta al dominio straniero, le sue imprese sarebbero state ricordate come esempio dai connazionali.


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