Se la bistrattata divisione hardware non fosse la responsabile degli insuccessi Nintendo, su chi ricadrebbe la colpa?
Abbiamo chiuso questo speciale sussurrando dei dubbi sulla divisione EAD Nintendo (cioè sullo sviluppo software), piuttosto che sulla bistrattata R&D (che si occupa principalmente dell'hardware): da qui ripartiamo con questa prima bustina, appuntamento a cadenza mensile, a tema Nintendo, che vi accompagnerà nei prossimi mesi. Lo sviluppo software, dicevamo: quasi una bestemmia anche solo criticarlo. Se in molti hanno consigliato a Nintendo di concentrarsi esclusivamente sui giochi, lasciando perdere le console, nessuno oserebbe suggerire il contrario; soprattutto, piaccia o meno la "Nintendo Difference", ogni utente Microsoft o Sony sarebbe ben lieto di poter usufruire di gorilla, idraulici e kokiri sulla propria piattaforma. In poche semplici parole, c'è un enorme rispetto per Nintendo come software house, per la sua storia e per il suo presente; ce n'è molto di meno per la divisione che ha inventato la croce direzionale, ha applicato lo stick analogico in un controller, i dorsali, il rumble pack, il Wiimote e via dicendo. Eppure, nonostante il Wii U sia nato in un'atmosfera caotica, nonostante il GamePad spaventi il malcapitato utente occasionale, nonostante ci siano difficoltà a far comprendere che si tratta di una nuova console, nonostante quindi la piattaforma stessa non sia esente da colpe, è probabile che il vero, autentico problema siano propri i giochi, a causa di un ricambio generazionale che fatica a prendere corpo. Una teoria azzardata? Forse. Però provate a confrontare i titoli pubblicati da Nintendo tra il 1984 e il 1994, quelli tra il 1994 e il 2004, e quelli tra il 2004 e il 2014. Senza scomodare Metacritic, non ci vuole molto a inquadrare la situazione.
La differenza tra qualità ed eccellenza
Non stiamo certo dicendo che Nintendo abbia smesso di fare bei giochi: sarebbe folle anche solo pensarlo. Semplicemente, per la sua storia, e soprattutto per il fatto che ormai deve contare (quasi) solo sulle proprie forze, Nintendo non può accontentarsi dell'alta qualità: deve realizzare qualcosa di epocale, almeno due volte al decennio... sempre che voglia rimanere quello che è stata finora. Tre semplici criteri aiutano a comprendere meglio la situazione: il valore di un videogioco, il suo potenziale commerciale, l'attrattiva del suddetto titolo estrapolato dal suo genere di appartenenza.
Dal 2004 in poi, limitandoci alle home console, non si trova un singolo prodotto Nintendo che esalti appieno tutte le categorie. Sicuramente la vetta più alta è stata raggiunta da Super Mario Galaxy (la coppia), trionfatore ai BAFTA Awards, venerato dalla critica, apprezzato anche dai palati fini non necessariamente dipendenti dai platform 3D. Dove Super Mario Galaxy difetta è nell'appeal commerciale: è vero che i degustatori si sono sentiti in obbligo di giocarlo, è altrettanto vero però che la "generazione FPS" lo ha ignorato. Ha venduto molto grazie al boom del Wii - essendo uscito anche nel periodo giusto - ma non ha smosso le vendite della console. A differenza di come riuscì a fare il suo antenato Super Mario 64, un titolo che da solo, grazie alla sua importanza storica, spinse il Nintendo 64 a vendere il triplo (attuale) del Wii U: un gioco che creò un prima e un dopo. Esattamente come un prima e un dopo lo hanno creato Super Mario Bros., Super Mario Bros. 3, The Legend of Zelda, Ocarina of Time e così via. E il secondo gioco Nintendo più importante dell'ultimo decennio, quantomeno attenendoci ai criteri precedentemente enunciati, è il bistrattato Wii Sports. Sembrerà assurdo, ma nonostante la qualità non eccelsa, nonostante la scarsa profondità, la creatura EAD ha smosso milioni di utenti a comprare il Wii, e si è imposto come termine di paragone per i motion control a tutto tondo.
Mario e Zelda non sono semplici parole
Alla base di questi problemi c'è sicuramente un duro e difficoltoso ricambio generazionale. Basti pensare che tutti i capolavori citati poco fa sono stati diretti dal duo Miyamoto-Tezuka, duo che non si occupa più in prima persona di un videogioco proprio dai tempi di Ocarina of Time: sì, il gioco esaltato da molti come migliore della storia, va ricordato anche per essere stato uno spartiacque nelle politiche interne Nintendo. Da lì in poi i vertici aziendali hanno iniziato a lanciare vari giovani nella direzione dei progetti, contando sulla supervisione dei due talenti già affermati. Non è difficile indicare il miglior frutto di questa gestione: Yoshiaki Koizumi, il papà di Super Mario Galaxy, una mente brillante ed estremamente creativa.
Nonostante questo, il recente Super Mario 3D World - pur essendo un platform eccezionale - non è riuscito a far vendere più Wii U, e nemmeno ad attirare l'attenzione delle persone poco interessate ai titoli di piattaforme. C'è un problema ulteriore: quando un'opera Nintendo non parla al mondo dei videogiochi nella sua interezza, ma si rintana nel gaming di genere, spesso perde appeal anche di fronte ai propri fan. E questo si collega a un altro argomento, ovvero l'ambigua gestione dei due brand più famosi, Mario e Zelda: se sono diventati quello che sono non è per la loro semplice esistenza, ma per la rilevanza delle singole incarnazioni. Una volta se un Mario o uno Zelda non erano degni del nome che portavano, semplicemente, non venivano pubblicati. Vedi Super Mario 64 2, o il seguito su SNES di A Link to the Past. Sarebbe stato un brutto gioco? No, solo che non sarebbe stato all'altezza del predecessore, anche perché nato sullo stesso hardware. Non avrebbe aggiunto prestigio al brand: il contrario, piuttosto. Adesso c'è un bisogno asfissiante di pubblicare Mario e Zelda con continuità, col risultato che si sta affossando la loro immagine. Ma per Nintendo è molto, molto più drammatico un Mario che non vende tanto rispetto a uno Star Fox che vende poco. Iwata, paladino della gestione improntata sul long-term, dovrebbe essere cosciente di questo aspetto: e cioè che Mario e Zelda sono i suoi assi. Non i sette, non gli otto, non i fanti o i cavalli. Non dovrebbero servire a portare a casa qualche punto, ma a vincere la partita. Se continueranno a essere schierati al momento sbagliato, presto o tardi la loro essenza collabirà concretamente nel ruolo interlocutorio con cui vengono giocati: e allora... allora sì, forse sarà troppo tardi.