Ho sempre creduto che alla base di tutto ci debba essere una sensibilità. Se non la cultura – intesa, alla tedesca, come formazione e storia o, perlomeno, come memoria – dovrebbe esserci come minimo una coscienza. Un io che interpreti, di volta in volta, la realtà, e che si relazioni con essa. Un soggetto che pensi e non un mero esecutore cieco di un compito o di un dovere. Mi riferisco al bambino di Padova trascinato dagli agenti. Ma penso anche a tanti altri casi del genere, più o meno conflittuali ma dove, sempre, non si prende in considerazione il bene più importante, quello dei minori. A volte si è ciechi quando si indossa una divisa (non solo militare), ma spesso un'uniforme – come dice la parola stessa – prende le sembianze più di una livrea mentale che di un semplice abito: non ci sono più io, lì dentro, ma soltanto un credo conformista e incontestabile esiste. Il ruolo, il mandato e la gerarchia sono gli unici valori che contano. E' da qui che nascono i dualismi delineati che conosciamo bene: dirigenti e sottoposti, controllori e controllati, questo sì e quello no, il mio ruolo e il tuo. La libertà nella nostra epoca esiste, sì, ma si trova all'interno di una sfera i cui confini sono tracciati e ben visibili, guai a chi non li rispetta. E le conseguenze di tale impostazione sono sotto gli occhi di tutti. Non solo a Padova, ma, senza andare troppo lontano, anche a Mestre. Dove una bambina, figlia di genitori separati e affidata a loro (soltanto sulla carta) in modo 'condiviso', alla vista del papà, che era andato a scuola per incontrarla all'uscita e parlarle, si è rifugiata nell'edificio, mentre l'insegnante chiamava la polizia che interveniva con ben tre pattuglie, contro questo 'padre-nemico pubblico numero uno', per-riportare-la-situazione-alla-normalità - è questa di solito la loro giustificazione. Ancora una volta i ruoli e gli attori che vi si rispecchiano – il metodo è evidentemente lo Stanislavskij – più che interpretarli: l'insegnante e la polizia, in primis, ma anche la figlia e il padre. Questi ultimi personaggi che sembrano, a dire il vero, far saltare gli schemi: ma dove si è vista mai una bambina che scappa alla vista del genitore? E dove invece un papà, costretto, da una preesistente 'situazione di normalità' che improvvisamente non condivide più, a inseguire sua figlia? Ma non è proprio questo il bello della diretta, quel che sembra un autentico paradosso ma che invece è parte intrinseca della realtà più trita? E quante realtà come questa esistono e quante ancora, di identiche, ce ne sarebbero se al loro posto non ci fossero altrettante situazioni il cui scopo è soltanto quello 'funzionale' di evitare che nascano? Sono tantissimi i matrimoni che saltano, ma sono tanti anche quelli che 'stanno in piedi', anche se barcollano ogni giorno. Ci sono genitori che non si lasciano e che vivono una vita da schiavi in una realtà domestica da cui vorrebbero fuggire. “Per 'amore' dei figli, per il 'loro bene'” - così si giustificano, ma non so veramente se sono capace di fidarmi delle loro parole. Quello a cui credo, in questi casi, è ciò di cui ho accennato all'inizio e cioè che, dietro ad alcune scelte, c'è anzitutto una sensibilità e una cultura, spesso una storia che non si vuole replicare, un futuro certo e già noto da evitare. In casi come questi, soltanto successivamente si sviluppano certi ruoli: ma le uniformi sono strette e le parti sono imparate a stento. E se non è un bene quello da salvaguardare, di certo è presente un male (maggiore?) da evitare. A volte va così e si vive un'esistenza che è una seconda scelta, piuttosto che affrontare la realtà, con tutte le conseguenze che essa comporta, per sé come per i figli. Ma vorrei che qualche volta succedesse anche che chi indossa un abito si spogliasse del suo ruolo, quando il caso dovesse richiederlo. E che tornassimo a essere uomini anziché soldati, e quindi più umani e sensibili. Che guardassimo di più al male da evitare piuttosto che al bene – se davvero di bene si tratta – da perseguire.
E se qualche volta evitassimo il male invece di perseguire il cosiddetto bene?
Da Cristiano @sosmammoHo sempre creduto che alla base di tutto ci debba essere una sensibilità. Se non la cultura – intesa, alla tedesca, come formazione e storia o, perlomeno, come memoria – dovrebbe esserci come minimo una coscienza. Un io che interpreti, di volta in volta, la realtà, e che si relazioni con essa. Un soggetto che pensi e non un mero esecutore cieco di un compito o di un dovere. Mi riferisco al bambino di Padova trascinato dagli agenti. Ma penso anche a tanti altri casi del genere, più o meno conflittuali ma dove, sempre, non si prende in considerazione il bene più importante, quello dei minori. A volte si è ciechi quando si indossa una divisa (non solo militare), ma spesso un'uniforme – come dice la parola stessa – prende le sembianze più di una livrea mentale che di un semplice abito: non ci sono più io, lì dentro, ma soltanto un credo conformista e incontestabile esiste. Il ruolo, il mandato e la gerarchia sono gli unici valori che contano. E' da qui che nascono i dualismi delineati che conosciamo bene: dirigenti e sottoposti, controllori e controllati, questo sì e quello no, il mio ruolo e il tuo. La libertà nella nostra epoca esiste, sì, ma si trova all'interno di una sfera i cui confini sono tracciati e ben visibili, guai a chi non li rispetta. E le conseguenze di tale impostazione sono sotto gli occhi di tutti. Non solo a Padova, ma, senza andare troppo lontano, anche a Mestre. Dove una bambina, figlia di genitori separati e affidata a loro (soltanto sulla carta) in modo 'condiviso', alla vista del papà, che era andato a scuola per incontrarla all'uscita e parlarle, si è rifugiata nell'edificio, mentre l'insegnante chiamava la polizia che interveniva con ben tre pattuglie, contro questo 'padre-nemico pubblico numero uno', per-riportare-la-situazione-alla-normalità - è questa di solito la loro giustificazione. Ancora una volta i ruoli e gli attori che vi si rispecchiano – il metodo è evidentemente lo Stanislavskij – più che interpretarli: l'insegnante e la polizia, in primis, ma anche la figlia e il padre. Questi ultimi personaggi che sembrano, a dire il vero, far saltare gli schemi: ma dove si è vista mai una bambina che scappa alla vista del genitore? E dove invece un papà, costretto, da una preesistente 'situazione di normalità' che improvvisamente non condivide più, a inseguire sua figlia? Ma non è proprio questo il bello della diretta, quel che sembra un autentico paradosso ma che invece è parte intrinseca della realtà più trita? E quante realtà come questa esistono e quante ancora, di identiche, ce ne sarebbero se al loro posto non ci fossero altrettante situazioni il cui scopo è soltanto quello 'funzionale' di evitare che nascano? Sono tantissimi i matrimoni che saltano, ma sono tanti anche quelli che 'stanno in piedi', anche se barcollano ogni giorno. Ci sono genitori che non si lasciano e che vivono una vita da schiavi in una realtà domestica da cui vorrebbero fuggire. “Per 'amore' dei figli, per il 'loro bene'” - così si giustificano, ma non so veramente se sono capace di fidarmi delle loro parole. Quello a cui credo, in questi casi, è ciò di cui ho accennato all'inizio e cioè che, dietro ad alcune scelte, c'è anzitutto una sensibilità e una cultura, spesso una storia che non si vuole replicare, un futuro certo e già noto da evitare. In casi come questi, soltanto successivamente si sviluppano certi ruoli: ma le uniformi sono strette e le parti sono imparate a stento. E se non è un bene quello da salvaguardare, di certo è presente un male (maggiore?) da evitare. A volte va così e si vive un'esistenza che è una seconda scelta, piuttosto che affrontare la realtà, con tutte le conseguenze che essa comporta, per sé come per i figli. Ma vorrei che qualche volta succedesse anche che chi indossa un abito si spogliasse del suo ruolo, quando il caso dovesse richiederlo. E che tornassimo a essere uomini anziché soldati, e quindi più umani e sensibili. Che guardassimo di più al male da evitare piuttosto che al bene – se davvero di bene si tratta – da perseguire.
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