E sono già via

Creato il 01 febbraio 2011 da Fabry2010

di Elisabetta Bordieri

Semaforo rosso.

Oggi poi li becco tutti io.

Si insomma non è proprio rosso, è giallo.

Dicono sia la stessa cosa e che ti devi fermare lo stesso.

Allora a che serve il giallo?

Come sempre inchiodo, perchè a questo serve il giallo.

Altrochè a farti rallentare! Regolarmente freni bruscamente per paura delle multe, delle telecamere nascoste sugli alberi e ti pianti sull’asfalto, sperando che quello dietro non ti entri dentro con tutta la famiglia.

Mi fermo.

In testa solo questa maledetta storia, quel maledetto incontro.

Lui.

Uomo famoso, arrivato, di successo.

Io.

Donna sconosciuta, in cammino, normale.

Quella sera. Ore ventuno in punto di giovedì.

Presentazione di un film, la prima come si dice, a cui tutti ambiscono partecipare. Tutti tranne io. Una prima per pochi intimi, per pochi eletti. Eleganti, in tiro, con appresso già pronte le frasi fatte, di rito.

Una noia mortale. Come il film. Ma pare che anche il solo pensarlo forte si trasformi in un led luminoso sulla fronte.

Nemmeno lo stacco tra il primo ed il secondo tempo.

Non esiste più. Tutta una tirata. Lo sfinimento fatto persona. Saranno stati tre tempi forse quattro. Un’infinità.

Poi uno scroscio di applausi e l’accensione delle luci mi fa presagire la fine del film.

Un tipo non meglio identificato sale sul palco e, dopo un inutile sproloquio, invita gli attori, presenti per l’occasione in sala, a salire sul palco che, nel giro di un attimo, viene allestito a sala stampa, con tanto di sedie, tavoli e microfoni.

Quello dietro ha inchiodato.

Scemo, anche lui non sa cosa sia il giallo.

Finalmente rosso.

Quasi quasi riparto e chissenefrega del verde.

Magari risolvo tutti i miei problemi.

Almeno quello di non pensare più.

Con le luci accese mi accorgo che la sala, per quanto piccola, è veramente piena.

Gli attori prendono posto. Solo lui arriva da dietro le quinte.

Entra e nemmeno lo vedo.

Entra e nemmeno mi vede.

Poi si siede e lo vedo.

Poi si siede e non mi vede.

Il tipo lo invita a parlare.

Parla solo lui per tutta la serata, offuscando completamente gli interventi degli altri.

Ipnotico, magnetico, catartico, si insomma, coinvolgente.

I suoi occhi girano per la sala mentre parla, vagano come possono vagare due occhi contro l’attenzione di mille, così senza poggiarsi su nessuno, mai stanchi, mai sazi, solo pieni di voglia di dare e di cercare. Occhi che sanno parlare, che sanno guardare, che ti svernano dentro.

Poi, si poi, incontrano i miei.

Due secondi e si distolgono.

Ancora altri due secondi e tornano.

E rimangono.

Lì. Attaccati ai miei.

Occhi negli occhi.

Io, una mano tra i capelli e l’altra poggiata sulle gambe, sento il bisogno di abbracciarmi. Con la mano destra lascio i capelli e mi stringo il braccio sinistro. Non lo so perchè ma mi viene così. Imbarazzata sorrido e poi abbasso lo sguardo. Credere che se non lo avessi fatto io, lui avrebbe potuto continuare a guardarmi per ore, mi emoziona, mi rende vulnerabile.

Ancora parole che ormai non ascolto più.

Rimango così, con le unghie conficcate nel braccio, con lo sguardo basso, aspettando che finisca la serata.

E finisce.

Applausi.

Bravi tutti.

Arrivederci e grazie.

Cosa ti suoni cretino?

Era giallo! Oppure dovevo passare perchè tu andavi di fretta?

Che razza di tromba hai messo al posto del clascon?

Mi sta perforando quella di eustachio e quella di qualcos’altro!

Solo il mio emette un suono che pare un sibilo che sembra chiedere scusa a tutti se è stato premuto.

Il buffet. Mi avvicino timorosa al buffet.

Sta parlando con tutto il mondo.

O meglio, tutto il mondo sta parlando con lui.

Mentre mangio un salatino rinsecchito ascolto, più o meno senza volerlo, qualche stralcio di discorso.

Elogi, acclamazioni, apprezzamenti, consensi e quant’altro.

Si sono tessute tante di quelle lodi nel giro di una manciata di secondi che tutta la sala è stata rivestita da una nuova tappezzeria.

Sto soffocando.

Capisco che non fa per me.

Io avrei detto altro.

Fatto altro.

Ma non importa.

Mando giù un sorso di acqua, il salatino ringrazia e dico addio a quei due occhi.

Giro i tacchi che non ho messo e me ne vado.

Prevedibile.

Un finale prevedibile.

Come il suo film.

Ed io consapevole, ho lasciato che così fosse.

Eppure si sa, sbagliamo il cento per cento dei colpi che non tiriamo.

Avrei dovuto non andarmene.

Avrei dovuto tirare.

Quasi l’una di notte.

Salgo in macchina.

Questa città è pazzesca.

Piena, strapiena di semafori.

Le amministrazioni di molte altre città hanno costruito rotatorie ovunque che eliminano le file, aumentano la sicurezza stradale, tolgono i vigili di torno.

Una bella rotonda e non se ne parla più.

Qui no, qui ancora semafori anche per un incrocio tra una mulattiera e una pista ciclabile.

Una notte non serena lascia il posto ad una mattina come tante.

Tra un caffè e un altro, accendo il pc.

Poche mail.

Una tra tutte.

La sua.

Senza nemmeno chiedermi come poteva essere possibile, apro e leggo.

“Ciao. Piacere”

Due parole e un punto.

Penetro quelle scritte, mi insinuo fra una lettera e un’altra, ne colgo significati remoti, astratti, Mi parlano, mi alitano dentro.

Rispondo.

“Ciao, piacere mio”.

Di una banalità rassicurante.

Ho passato tutta la mattina ad aspettare una risposta che non è mai arrivata, il pomeriggio, la sera, la notte.

E poi la mattina dopo e poi ancora il pomeriggio dopo e la sera e la notte.

Un miliardo di cose da fare anch’io, come tutti, come lui.

Ma incollata al pc io.

Lui no.

Già sentivo il dolore.

Già parlavo di dolore.

Colpa mia. Mi innamoro per niente.

Delle situazioni.

Delle occasioni.

Delle coincidenze.

Delle favole.

Rosso fuoco.

Sembra ardere che fa sentire caldo.

Si vabbeh ma quanto dura?

Il tipo della macchina dietro accosta alla mia sinistra.

Ora gli chiedo dell’acqua per spegnere il faro rosso del semaforo.

Accosta e mi guarda.

Frena, si ferma, riparte sgommando e mi si para davanti.

Ma cosa avevo creduto?

Incontrato e perso nel giro di un attimo.

So che esiste un modo per non soffrire più. Questo. Si, a parte quello di passare con il rosso, intendo quello di toccare il fondo, il fondo vero, che più fondo non si può. Allora significa che hai sofferto il soffribile e allora puoi risalire. Lì, attaccato alle pareti di una vita tutta da rifare, non soffri più. Lì, la sirena potente del fascino dei ricordi, non ha più alcun potere. Lì. Solo lì.

Si ma…arrivarci lì.

E così decido di arrivarci in fretta andando al pc per riprendere la mail pronta a scrivergli una letteraccia, sperando di trovare quel fondo, quando invece trovo la sua risposta. Dopo tre giorni.

“Grazie a tutti per la vostra presenza……”

Non finisco nemmeno di leggere.

Il mittente riportava il suo nome ma la lettera era firmata dal fan club che citava le sue parole.

Riprendo la vecchia mail.

Piccola distrazione.

Decisamente ateconologica, non avevo letto i destinatari, forse venti o forse cento, duecento, mille, che ne so, che insieme a me avevano ricevuto il “Ciao. Piacere” infilati dentro copia per conoscenza nascosta.

Un fan club. Finita in una mailing list di un fun club.

Io, che già soffrivo per amore mi sono sentita circuita, sfruttata, abbandonata, dimenticata.

Da lui.

Ma da lui chi?

La realtà è ben altra cosa.
Ero solo stata gioco di una una folle alchimia, messa in opera da uno stanco destino.

Vedo che mi sta guardando dallo specchietto.

Solo ora mi rendo conto che la macchina è una ferrari rossa.

Più rossa del rosso del semaforo.

Una ferrari, quelle che raramente si vedono sfrecciare in autostrada, che tu non sai se maledire o invidiare. Ma non hai mai il tempo per pensare cosa scegliere perchè è già schizzata via prima che il tuo pensiero prenda forma.

Ora che avevo il tempo, non sapevo cosa fare.

Fa retromarcia facendo fischiare quelle povere gomme ormai lisce.

Mi si riaccosta a sinistra.

Tira giù il finestrino.

Tiro giù il finestrino.

Poi sento.

“Ciao. Piacere”.

Il destino sembra spesso riprendersi dalla sua stanchezza.

Mi riprendo anch’io dal dolore.

Distolgo lo sguardo da lui e lo volgo in alto a destra dalla parte opposta.

Semaforo verde.

Chissà chi è.

Non lo so.

Ma so chi sono io.

E lo so bene.

“Ciao. Piacere mio” penso.

Metto la prima.

E sono già via.



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