è stato il figlio

Creato il 28 settembre 2012 da Albertogallo

È STATO IL FIGLIO (Italia 2012)

All’inizio di È stato il figlio, con la sua lunga carrellata di personaggi grossi, grassi, storti, deformi, scavati, troppo vecchi o troppo stretti o troppo larghi o troppo giovani, ho pensato: “Ah, ecco la bruttura del mondo di Ciprì e Maresco!”. E la seconda cosa che ho pensato è stata: “Ma io di Ciprì e Maresco avrò visto sì e no tre o quattro minuti totali di cose su La7 in epoche remote nelle quali faticavo a dormire!”. Pertanto non voglio dilungarmi troppo sull’estetica dello sgradevole che riverbera nel corso di tutta la pellicola. E non parlerò nemmeno dello straordinario talento dello staff di Daniele Ciprì nello scovare bravissimi attori brutti – l’avvocato, su tutti, un mix tra le fattezze di Marty Feldman e l’impostazione vocale di Amedeo Nazzari. E non voglio neanche dire che, in tanto amore che il cinema ha spesso speso nei confronti della Sicilia, Ciprì (e il suo collega Maresco, che non so che fine abbia fatto, onestamente) sia l’unico ad averla dipinta non nelle sue chiarissime sfumature bruciate dal sole, bensì nella sua oscurità, cercando sempre di scovare (e di scavare) i volti dei suoi personaggi nell’ombra. E poi non voglio nemmeno dire che, dopo una pellicola come The Words, così povera di idee visive, È stato il figlio esplode come una bomba riempita di pezzi di metallo: le invenzioni di Ciprì – che incastra i movimenti degli attori dentro il perimetro del finestrino abbassato di una macchina, o dentro un grande tubo di alluminio, o dentro il quadrato di una finestra spalancata e ristretta dalla plastica bianca di una persiana – sono un gioco continuo con l’attenzione dello spettatore, che ci finisce dentro con tutte le scarpe a queste sue bellissime trappole, schegge impazzite di pura creatività. Ma gli hanno dato qualcosa a questo regista, a Venezia? L’avrà pur vinto qualche premio, non posso credere che tanta inventiva nella messa in scena non venga riconosciuta da nessuno!*

Ciprì racconta una storia che potrebbe far sbuffare chi ormai è completamente perso nel suo stesso snobismo (il sottoscritto, ad esempio) e che è un po’ stufo di ritrovarsi in quartieri popolari a cavallo degli anni Settanta-Ottanta, nei quali la gente s’arrangia come può per andare avanti. Ciprì ama queste persone, la loro squallida esistenza fatta di indolenza e di strilli e sporcizia e disordine e confusione mentale. La bruttura degli uomini si mischia alla bruttura dei panorami industriali inquadrati dall’occhio della cinepresa. I palazzi e le fabbriche sono brutte, le macchine e le navi sono brutte, e pure le persone, inevitabilmente, sono brutte. Nella bruttura generale c’è Nicola con la sua famiglia: moglie, figli, nonni paterni, tutti cercano di campare come possono e di migliorare, in qualsiasi modo, la propria condizione di bruttura. Ma senza troppa fortuna. Nicola non è un uomo brillante, ha una personalità troppo invadente. La famiglia guadagna, ma si potrebbe far meglio. Poi ci sono persone come il nipote Masino, che intrallazzandosi con la mafia fa la bella vita alla faccia dei parenti. È attorno a quest’ultimo che nasce il casino che costringerà Nicola a farsi due volte il mazzo che si faceva prima per mantenere i suoi. Una tragedia che sarà la ragione della seconda e della terza tragedia, fino alla tragedia finale, che è la tragedia annunciata della cornice del film, nella quale l’uomo segnato e che fissa il vuoto rapisce con i suoi racconti dolorosissimi i clienti di un ufficio postale.

Non c’è pena verso questi personaggi, Ciprì li ama nella sua inevitabile imperfezione. E li rispetta per le condizioni in cui si trovano a mandare avanti la vita. Il finale è uno schiaffo a piena mano sulla faccia di tutti quelli che forse non sanno che la vita è andare avanti, e che l’andare avanti è dolore, e sofferenza. Nicola ha tanti difetti ma sa soffrire per il bene della sua famiglia, e per questo, nonostante le sue limitatissime capacità attitudinali, la famiglia lo sopporta e lo supporta. Chi manda avanti la baracca ha il diritto di parola anche se parla a sproposito. Pur raccontando una storia che all’apparenza sembra trita e ritrita, Ciprì trova una nuova epica, un nuovo messaggio che si riallaccia al presente, nel rapporto tra precariato e stabilità, tra giovani e vecchi, tra disperazione e confusione. E sopra a tutto questo sta il pensiero della mafia, che c’è e che manda avanti i suoi affari senza farsi troppo vedere – ma la sua cultura è presente ed è una materia viva di cui tutti bene o male si servono.
Gli anni passano, a Palermo, e nel quartiere popolare due restano le certezze: il vecchio vestito di nero, con i capelli bianchi, la barba e il bastone, che è un po’ la morte ma è anche dio; e la bambina grassa e impacciata che non riesce a giocare con gli altri, che è il disagio, ma forse anche la salvezza. Guardano gli altri vivere nel parcheggio del quartiere, che è anche un po’ parco giochi, che è anche un po’ piazza, e non si muovono. Della verità, invece, non c’è traccia.

Toni Servillo è bravo, ma non è siciliano, mentre il resto del cast sì, e la differenza si sente ancor prima di vedersi. In più è costretto a recitare l’unico personaggio veramente macchiettistico di tutto il film, e crea una rottura strana, che funziona, ma che non nasconde una certa artificialità. Soltanto lui, in ogni caso, avrebbe potuto reggere una metamorfosi simile. L’altra cosa un po’ difficile da spiegare è che un film ambientato a Palermo sia stato in realtà girato in Puglia, ma probabilmente su questo punto mi mancano delle informazioni. A ogni modo, se il film resiste nelle sale, ve ne prego: andate a vederlo.

Francesco Rigoni

* Dice Wikipedia: “Alla 69esima Mostra di Venezia il film, proiettato in versione originale con sottotitoli in inglese il 1 settembre 2012, ha ottenuto dalla giuria il premio ‘per il miglior contributo tecnico’, consegnato in data 8 settembre a Daniele Ciprì per la fotografia”. È già qualcosa. (A.G.)



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