Che fosse un gran dissipatore di fama e fortune, braccato a vista dai creditori, corrisponde più a leggenda che a verità. Salgàri è un mitomane, un visionario, uno spacciatore di menzogne. Ma non è la narrativa a essere tutta una menzogna? Scrive – questa la verità – per domare la tigre della depressione che lo artiglia, ed è la fatica creativa a consumarlo nell’alloggio torinese di Corso Casale. Quattro libri l’anno, impone il contratto. Si lamenta con l’editore d’essere osteggiato, rovinato, senza un soldo, invece è annichilito dal suo stesso sentirsi inferiore. Incontra De Amicis alle partite di pallone elastico e nemmeno osa avvicinarsi per stringergli la mano.
La sua storia finisce una mattina di aprile, immagino piovoso come nelle foreste di Mompracem: lo ritrovano in un burroncello collinare, in mano ancora il rasoio con cui si è scannato come uno dei suoi eroi. “Vi saluto spezzando la penna”, lascia scritto, ma neanche quel gesto estremo suscita nella comunità letteraria il clamore vagheggiato. Al suo funerale soltanto un nugolo di ragazzi, i suoi libri sotto il braccio. A ben pensarci, il miglior commiato che uno scrittore può meritare.
(Segnalo il bel romanzo di Ernesto Ferrero "Disegnare il vento - L'ultimo viaggio del capitano Salgàri", Einaudi, 2011.)