Eccoti: sei qui, sei tornata; sei di nuovo fra le pagine dentro le righe, fra le parole che lanci tutto intorno nell’attesa che qualcuno le colga. Sei l’attesa tu stessa dell’accadere; sei l’aspettativa del farsi, la fatica, un sogno scordato al mattino.
Eccoti: sei qui, sei tornata; sei il latte versato, la pioggia sul bagnato, l’acchiappa farfalle. Sei tu stessa farfalla incosciente: quando eri bruco non lo sapevi, cosa sarai domani ancora non ti figuri.
Fuori domenica quattordici giugno duemilaquindici, più di cinquantacinque anni, il cuore di ventenne, gli entusiasmi del primo amore; dentro la tua casa le tue cose i tuoi pensieri, questa voglia continua di alzare le vele e ogni giorno buttare il sensato al vento per poi ricominciare.
Guardati, sei nuda: non vene con il sangue che scorre troppo forte ma carne morbida.
Fuori la pioggia si è placata, è tornato il sole ma l’aria è ancor fresca. Avanza piano l’afa, però si avvicina ormai anche la sera; dentro il profumo del caffè pomeridiano, una musica lontana – forse Bach – una bimba che gioca con suo padre e ride senza sapere che l’ascolti attraverso la finestra aperta.
Eccoti, sei nuda: il caldo estivo ti contorce e ti spossa, ti invoglia a dormire mentre dovresti tanto fare. Lo schermo ti rimanda quella te stessa che vorresti ma non hai sempre; devi conquistarla a fatica per possederla, non devi abbandonarla neppure per un momento, la devi curare come un bambino viziato che non lascia tregua, che chiama sempre.
Eccoti: sei qui, sei tornata; sei di nuovo fra le pagine dentro le righe, nel ticchettio regolare della tastiera, mentre Lalolle canta e stira, la gatta si è posata sul libro che hai davanti e guarda lo schermo illuminato, le parole che si formano – nere formiche inanellate – e prendono senso. Sei tornata mentre Ice cammina per le stanze e riordina la cucina.
Estate, domenica quattordici giugno duemilaquindici, temporale passato.
Canto della mia nudità
Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
Del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
Antonia Pozzi
Quadri di Jozsef Rippl-Ronai (1861-1927)
P.S.: credo di essere stata ispirata, inconsciamente, anche da Massimo Botturi, qui, e la sua poesia è come sempre molto bella, un esempio raro ed incantevole di poesia – narrativa; in lui, poi, si completa con lunghi cerchi concentrici di metafore, immagini, assonanze, consonanze, in un linguaggio opulento dai richiami quasi barocchi…
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