Rilevati dal telescopio spaziale Chandra della NASA i segnali indiretti – rimbalzati tramite un processo di fluorescenza e risalenti a qualche secolo fa – di almeno due distinti episodi d'emissione X esplosiva provenienti da Sagittarius A*.
di Marco Malaspina 25/10/2013 13:24Sagittarius A*. Crediti: NASA/CXC/APC/Université Paris Diderot/M.Clavel et al
Zitto e quieto. Così ci viene sempre presentato Sagittarius A* (dove l’asterisco sta per “stella”), il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia. Un gigante placido che non ha più in serbo alcuna sorpresa, almeno non nell’immediato, se non qualche sporadico spuntino. In passato, però, anche Sgr A* dev’essere stato un soggetto parecchio inquieto. Di alcuni episodi, come l’esplosione risalente a due milioni d’anni fa, ancora portiamo i segni. Ma non c’è bisogno di risalire così indietro nel tempo: il telescopio spaziale Chandra della NASA ha appena registrato l’eco di ben due boati luminosi non più vecchi di qualche secolo.
Lo studio, condotto da un team guidato da Maïca Clavel dell’APC (AstroParticule et Cosmologie) di Parigi e pubblicato questo ottobre su Astronomy and Astrophysics, è il primo nel quale le firme di due esplosioni (outburst) distinte siano presenti all’interno d’uno stesso insieme di dati. Ed è anche la prima volta in cui s’osservano contemporaneamente emissioni in banda X sia in aumento che in diminuzione relativamente a una stessa struttura.
Questo perché ciò che Chandra ha visto provenire dai dintorni di Sgr A* non è un segnale diretto, bensì la sua eco. L’eco d’emissioni luminose (flares) originate da almeno due episodi distinti di caduta di materia nelle spire del buco nero. Quale materia non è dato saperlo: si pensa possa essere stato il gas strappato a una stella, o magari un pianeta, o ancora i residui d’una collisione fra due stelle. I ricercatori hanno pure preso in considerazione la possibilità che il colpevole sia una magnetar scoperta di recente nei pressi di Sgr A*, ma in tal caso si sarebbe dovuto trattare di un’esplosione assai più potente di quella più intensa mai registrata proveniente da questa classe d’oggetti.
Se in questo doppio cold case rimangono ancora incertezze sull’identità delle “vittime”, il processo grazie al quale i fatti sono venuti alla luce – l’eco luminosa registrata da Chandra – è invece piuttosto chiaro: si chiama fluorescenza, ed è dovuta agli atomi di ferro presenti nelle nubi di gas che circondano Sgr A*. Il bombardamento di raggi X degli outburst strappa da questi atomi alcuni degli elettroni dalle orbite interne, quelli più vicini ai nuclei, lasciando dei buchi. Buchi che vengono immediatamente riempiti dagli elettroni più esterni, i quali serrando i ranghi emettono a loro volta fotoni X.
L’effetto complessivo è grosso modo quello d’un segnale che rimbalza contro una parete, proprio come un’eco. E, come un’eco, è molto più debole – almeno un milione di volte, stimano gli astronomi – rispetto al segnale originale: quello che avrebbero osservato i nostri antenati di qualche secolo addietro se avessero avuto a disposizione un telescopio come Chandra.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “Echoes of multiple outbursts of Sagittarius A* revealed by Chandra“, di M. Clavel, R. Terrier, A. Goldwurm, M. R. Morris, G. Ponti, S. Soldi e G. Trap
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina