Ora, io non voglio che si creda che sottovaluti l’autore di cui andrò a scrivere di seguito. Nelle mie recensioni provo sempre a tirare fuori degli aspetti che mi appaiono evidenti del libro, della serata o dello scrittore di cui propongo delle analisi e giuro d’averlo fatto anche nel caso di Cavina che alla libreria “Alfabeta” ha presentato il suo ultimo lavoro “Inutile tentare imprigionare sogni”. Il titolo originario doveva essere “Inutile tentare istruire scemi”, acronimo dell’ITIS, prima di Faenza e poi di Imola, teatro della storia narrata che è poi resoconto dell’adolescenza studentesca dell’autore, ma gli editori hanno evidentemente puntato su qualcosa di più poetico. Ho pensato al Vamba di Gianburrasca, unico testo che affronta il mondo della scuola con freschezza e leggerezza come fa l’autore romagnolo, provando a raccontare non solo la tristezza, ma anche le situazioni comiche e ludiche di cui la scuola è piena e forse qui mi sarei dovuto fermare nelle associazioni letterarie. Però in Cavina, insieme agli aspetti goliardici ed umoristici, non mancano sfaccettature nostalgiche e tenere che avvicinano in alcune pagine l’autore ad una letteratura più ricercata. M’è allora venuto in mente Proust; certo Casole non è il Faubourg Saint-Germain, e Ubaldo ha tutt’altre ambizioni rispetto a Marcel, e gli anni ottanta in Italia non sono l’inizio del Novecento a Parigi, e…Niente, Proust credo sia troppo, lo ammetterebbe anche l’autore che cita in un passaggio quello delle antologie scolastiche delle madeleine. Raccontando di una precedente conferenza insieme ad uno scrittore più affermato ed esponendo le tecniche ed i metodi di scrittura posti in comparazione è Cavina stesso a mostrare delle differenze. Ci sarebbe l’ “Agostino” di Moravia, come si suggerisce durante la presentazione del libro, ma mentre da un lato Moravia è più strutturato e più letterato, Cavina fornisce ad i suoi personaggi, per scelta e per spontaneità di stile, un linguaggio adolescente e giovane che è quasi oltre il parlato, pulito e fresco e semplice. Le ragioni per cui scrive il Cavina sono indubbiamente meritorie; quel desiderio di salvare la “periferia della periferia” di cui si parla solo per fatti di cronaca nera senza mai raccontarne l’umanità, la forte vena nostalgica, i colori acquarello di alcune pagine di “Romagna mia”, il bisogno di comunicare un sincero affetto, quasi un amore per parenti o amici o familiari, che, per una traccia etnica e culturale nella Romagna cui l’autore appartiene è ben difficile esprimere in maniera diretta nella vita reale e per cui è necessario il filtro ed il medium del libro perché venga alla luce. C’è una critica alla critica continua dell’ambiente scolastico, che non formerebbe più a detta di molti e che invece, dice chiaramente Cavina, nulla può contro le richieste e le “politiche” interne al nucleo familiare. Ma non c’è mai conflitto nelle pagine del libro, neanche nelle scazzottate occasionali o nei “giochi” tra ragazzi” ma sempre l’intenzione di sottolineare la solidarietà e l’affetto che lega non solo compagni di scuola, ma anche membri di una famiglia o generazioni differenti tra loro. Ci sono riflessioni crude sull’utilità della scuola nell’insegnare che il mondo non è “per qualcuno” ma sempre “contro qualcuno”. I tratti seri, quindi, nel testo non mancano, ma si nascondono come imbarazzati, come se l’autore non si sentisse quasi degno di dire la sua, utilizzando certi toni, in merito a certi argomenti ed allora ci si scherza su, mentre si presenta il libro e mentre se ne raccontano frammenti: il “magari” sotto la sagoma della donna sulla porta dei bagni in un istituto frequentato da soli ragazzi, l’iscrizione all’industriale ad opera della madre e, come per uno Scajola ante-litteram, “all’insaputa dell’interessato”, la scelta della vita solo di piani B, tutti ugualmente fallimentari, il ricordo di compagni di scuola che al primo anno di liceo si presentano con la patente, la passione per i professori, studiati nel loro dedicarsi più o meno insegnamente al proprio lavoro, le biografie grottesche dei docenti, degli studenti, degli alunni, e di chiunque si movesse tra casa e scuola e tanti altri ancora sarebbe gli esempi da presentare. Belli comunque gli anni di scuola, si sente che è vero il ricordarli di Cavina, una persona normale, che fa una vita normale, che raccoglie e salva memorie, che è vecchio e giovane insieme nel parlarne. È davvero difficile trovarci della letteratura nell’opera del Cavina, ma c’è una tale gioia di vivere, tanto la felicità quanto i dolori che la vita ci offre nel suo raccontare, che non dispiace affatto che ci sia chi ancora racconta come fosse in riva al mare o seduto di fronte alla porta di casa con amici e pietre che si conoscon da anni, anzi, fa quasi piacere pensare con Rimbaud, che sia quasi un bene che tutto vada e venga regalato così, almeno per una volta che “l’arte sia completamente inutile”.
di Vittorio Musca