Edgar A. Poe – “Il gatto nero” + commento

Da Stroszek85 @stroszek85

Per la narrazione stravagantissima eppure quanto mai domestica che sono sul punto di vergare, non mi aspetto né sollecito né fede. Pazzo sarei davvero ad aspettarmela, in un caso in cui i miei sensi stessi respingono la propria testimonianza. Eppure non sono un pazzo, e con ogni certezza non sogno. Ma domani muoio, e oggi vorrei togliermi dall’anima un gran peso.
Il mio scopo immediato è di mettere a conoscenza del mondo, in modo semplice e succinto, e senza commenti, una serie di puri avvenimenti casalinghi. Nelle conseguenze avute, questi avvenimenti mi hanno atterrito, torturato, distrutto. Ma non mi proverò a esporle. In me hanno destato non altro che orrore; a molti parranno meno terribili dei grotteschi da baraccone. D’ora in poi, forse, si troverà qualche intelletto più calmo, più logico e assai meno eccitabile del mio, che nelle circostanze da me specificate con tanta paura non vedrà nulla di più di un’ordinaria successione di cause ed effetti normalissimi.

Sin dall’infanzia mi feci notare per la mia indole docile e umana. La mia tenerezza di cuore era anzi così spinta da fare di me lo zimbello dei miei compagni. Avevo un particolare attaccamento per gli animali, e i miei genitori mi assecondavano regalandomi una gran quantità di bestiole addomesticate. Con queste passavo la maggior parte del mio tempo, e non ero mai così felice come quando le cibavo o accarezzavo. Questo tratto peculiare del mio carattere andò crescendo in me col crescere della mia persona, e giunto che fui a virilità divenne per me una delle principali fonti di piacere. A chi abbia nutrito affetto per un cane fedele e sagace, non ho certo bisogno di affannarmi a spiegare natura o intensità della soddisfazione così procurabile. Nell’amore disinteressato e generoso di una bestia c’è qualcosa che va diritto al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la dozzinale amicizia e labile fedeltà del semplice UOMO.

Io mi sposai presto, e fui lieto di trovare in mia moglie un’indole non aliena dalla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali da casa e da salotto, non perdeva occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avemmo così uccelli, pesci dorati, un cane di razza, conigli, una scimmietta e un GATTO. Quest’ultimo era un animale di notevoli proporzioni e bellezza, tutto nero e dotato di intelligenza sbalorditiva. A tale proposito, mia moglie, incline in cuor suo alla superstizione, faceva continue allusioni all’inveterata credenza popolare che considera tutti i gatti neri streghe travestite. Non che prendesse mai tale idea sul serio, e se io ne parlo adesso è soltanto perché mi è capitato di ricordarmene.
Pluto – era questo il nome del gatto – era il mio animaletto favorito e compagno di giochi. Io solo gli davo da mangiare, e lui mi seguiva dovunque mi recassi in casa. A stento anzi riuscivo ad impedirgli di seguirmi per le strade.
In questo modo la nostra amicizia durò parecchi anni, durante i quali (e arrossisco al confessarlo) temperamento e carattere ebbero a subire in me – sotto l’azione del Dèmone Intemperanza – un radicale peggioramento. Di giorno in giorno mi facevo più lunatico, più irritabile, più irriguardoso per i sentimenti degli altri. Mi lasciavo andare a espressioni scorrette verso mia moglie; e finii per usarle violenza materiale. Naturalmente i miei favoriti risentirono del mutamento d’animo: poiché non soltanto li trascuravo, ma li maltrattavo. Per Pluto però serbavo ancora tanto riguardo da frenarmi in fatto di maltrattamenti, mentre non mi facevo scrupolo alcuno di maltrattare i conigli, la scimmia o anche il cane quando il caso o l’affetto me li mettevano tra i piedi.
Ma la mia malattia si aggravò – quale mai malattia è pari all’Alcool? – e infine anche Pluto, che invecchiando si andava facendo un po’ petulante, anche Pluto cominciò a provare gli effetti del mio malumore.

Una sera, rincasando in preda a forte ubriachezza da uno dei locali che frequentavo in città, credetti di notare che il gatto mi evitava. Lo afferrai; e allora, spaventato della mia violenza, esso mi ferì lievemente alla mano con un morso. Si impadronì subito di me una furia demoniaca. Non mi riconoscevo più. Sembrava che l’anima mia originaria fosse fuggita via dal corpo; e una malignità più che diabolica, accesa dal gin, mi fece vibrare in ogni fibra. Estrassi un temperino dal taschino del panciotto, lo aprii, ghermii la povera bestiola per la gola e con la lama deliberatamente le cavai un occhio dall’orbita!
Arrossisco, brucio, rabbrividisco al mettere per iscritto quest’infame atrocità.
Quando la ragione ritornò al mattino – svaporati nel sonno i fumi dell’orgia notturna – provai un senso misto d’orrore e rimorso per il delitto di cui mi ero macchiato; ma era tutt’al più un sentimento debole ed equivoco, e l’anima non ne fu sfiorata. Di nuovo mi buttai agli eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio atto.
Frattanto il gatto pian piano guarì. L’orbita vuota del suo occhio, è vero, era spaventosa a vedersi, ma ogni dolore fisico sembrava scomparso. L’animale girava per casa come al solito, ma logicamente fuggiva terrorizzato al mio avvicinarsi. Tanto mi rimaneva ancora dell’antico cuore, che a tutta prima mi afflisse questa evidente antipatia da parte di una creatura che mi aveva voluto così bene. Ma questo sentimento cedette ben presto all’irritazione. E poi, quasi a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo spirito della PERVERSITA’. Di questo spirito la filosofia non tiene conto alcuno. Eppure, quanto sono certo che l’anima mia vive, sono sicuro che la perversità sia fra gli impulsi primitivi del cuore umano una delle invisibili facoltà primarie, o sentimenti, che imprimono un indirizzo al carattere dell’Uomo. A chi mai non è capitato cento volte di commettere un’azione vile o insulsa per la sola ragione che sapeva di NON doverla commettere? Non abbiamo noi la perpetua inclinazione, a dispetto del nostro miglior giudizio, di violare ciò che è LEGGE solo perché tale la riconosciamo? Questo spirito di perversità, dico, venne a rovinarmi per sempre. Fu questa insondabile brama dell’anima di DANNEGGIARE SE STESSA, di far violenza alla propria natura, di commettere il male per il male, che mi spinse a continuare e poi portare a compimento la tortura da me inflitta alla bestiola innocente.

Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e la impiccai a un ramo d’albero; la impiccai con gli occhi pieni di lacrime e col più amaro rimorso in cuore, la impiccai PERCHE’ sapevo che non mi aveva fatto nulla di male; la impiccai PERCHE’, sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe compromesso l’anima mia indistruttibile fino al punto di porla – se ciò fosse possibile – fin oltre la portata dell’infinita misericordia del Dio di pietà e terrore.
La notte della giornata in cui commisi quest’atto crudele, mi svegliò dal sonno il grido: “Al fuoco!”. I tendaggi del mio letto erano in fiamme. La casa divampava tutta. Fu a stento che mia moglie, una domestica ed io sfuggimmo all’incendio. La distruzione fu completa. Tutta la mia sostanza fu divorata, e da allora in poi mi rassegnai alla disperazione. Io sono superiore alla debolezza di voler assodare una susseguenza di causa ed effetto fra il disastro e l’atrocità. Ma ora sto specificando una catena di fatti, e non voglio trascurarne possibilmente nemmeno un anello.
All’indomani dell’incendio, perlustrai le macerie. I muri, a eccezione di uno solo, erano crollati; e tale eccezione consisteva in un muro divisorio, non molto spesso, che sorgeva circa nel mezzo della casa. Contro di esso poggiava a suo tempo la testata del mio letto; e qui l’intonaco resistette in gran parte all’azione del fuoco, fatto che attribuii alla data recente in cui era stato tinteggiato. Intorno a questo muro si era radunata una fitta folla, e molte persone mostravano di esaminarne una certa parte con attenzione minuta e assai intensa. Le parole “strano!”, “singolare!” e altre del genere eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi scolpita a bassorilievo sulla bianca superficie, la figura di un gigantesco GATTO. L’impressione era così precisa che aveva del meraviglioso. L’animale aveva una corda al collo.

Al primo scorgere quest’apparizione – poiché non potevo considerarla da meno – meraviglia e terrore furono in me estremi. Ma infine la riflessione mi venne in aiuto. Il gatto, ricordai, era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa. All’allarme dell’incendio, questo giardino era stato subito invaso dalla folla e alcuni dei suoi componenti dovevano aver staccato l’animale dall’albero per gettarlo, attraverso una finestra aperta, in camera mia. Questo, probabilmente, per svegliare me. Il crollo di altri muri aveva spiaccicato la vittima della mia crudeltà contro la parete, sino a impregnarne l’intonaco fresco; e poi la calcina sotto l’azione delle fiamme, combinata con l’ammoniaca della carogna, aveva creato l’effige come la vidi io.
Sebbene così spiegassi prontamente alla mia ragione, se non proprio alla mia coscienza, lo strabiliante fatto appena descritto, esso non mancò di fare profonda impressione alla mia fantasia. Per mesi e mesi non potei liberarmi del fantasma del gatto; e in questo periodo riaffiorò nel mio spirito un sentimento che sembrava, e non era, rimorso. Giunsi a rimpiangere la perdita dell’animaletto, e a guardarmi intorno, nei locali innominabili che ora abitualmente frequentavo, per cercarne un altro della sua stessa specie, e di aspetto più o meno simile, con cui sostituirlo.
Una sera, mentre sedevo mezzo intontito in una sentina d’infamia, la mia attenzione fu improvvisamente attirata da un certo oggetto nero, adagiato in cima a una delle immense botti di gin e rum che costituivano la mobilia quasi esclusiva del locale. Da vari minuti fissavo la cima di questa botte, e la mia sorpresa scaturì dal fatto che non avessi scorto prima l’oggetto sovrastante. Mi accostai e lo toccai. Era un gatto nero molto grosso; grosso quanto Pluto, e a lui somigliantissimo per ogni verso, tranne uno. Pluto non aveva un solo pelo bianco; ma questo gatto aveva una estesa benché indefinita chiazza bianca che gli copriva quasi per intero il petto.
Al contatto della mia mano, esso subito si alzò, facendo sonoramente le fusa, mi si soffregò contro, e apparve arcicontento della mia attenzione. Era dunque proprio questa la creatura di cui andavo in cerca. Proposi subito l’acquisto al padrone del locale, ma costui non rivendicò alcun diritto – non ne sapeva nulla – non l’aveva mai visto prima. Io continuai a far carezze, e quando mi accinsi a rincasare l’animale si mostrò desideroso di accompagnarmi. Glielo permisi senz’altro; e ogni tanto mi chinavo a coccolarlo strada facendo. Quando esso raggiunse la casa, vi si ambientò subito, e divenne là per là un grande favorito di mia moglie. Per parte mia, mi sentii ben presto nascere antipatia nei suoi riguardi. Era proprio l’inverso di quanto avevo previsto; ma – non so come o perché avvenisse – il suo evidente affetto per me non faceva che disgustarmi e seccarmi.

A poco a poco, questi sentimenti ostili assursero all’asprezza dell’odio. Mi diedi a evitare l’animaletto; un certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impedivano di fargli del male fisico. Per varie settimane mi astenni dal colpirlo o arrecargli comunque violenza; ma a lenti gradi – insensibilmente – giunsi a considerarlo con aborrimento inesprimibile e a fuggirne in silenzio l’odiosa presenza, come un fiato di peste. Ciò che senza dubbio rinfocolò in me l’odio per la bestiola fu il fatto di scoprire, la mattina dopo che l’ebbi portato a casa, che al pari di Pluto anch’essa era stata privata di un occhio. Tuttavia tale circostanza non fece altro che renderla più cara a mia moglie, la quale, come ho già detto, possedeva ad alto grado quell’umanità di sentimenti che era stata una volta il mio tratto caratteristico, e mi aveva procurato i piaceri più semplici e puri.
Ma con la mia avversione per questo gatto sembrava aumentare di pari passo la sua predilezione per me. Seguiva i miei passi con una tenacia che sarebbe arduo far comprendere al lettore. Dovunque sedessi, si accoccolava sotto la mia sedia o mi saltava sulle ginocchia, coprendomi delle sue aborrite carezze. Se mi alzavo per camminare, mi si metteva tra i piedi rischiando così di farmi ruzzolare, oppure mi piantava nel vestito gli artigli lunghi e aguzzi per arrampicarmisi sul petto. E allora, pur sentendo la voglia di ucciderlo sul colpo, mi trattenevo dal farlo, in parte per il ricordo del mio vecchio crimine, ma soprattutto – sarò sincero – per un’invincibile PAURA che la bestia mi incuteva. Non era proprio una paura di mali fisici: eppure non saprei altrimenti come definirla.
Quasi mi vergogno di ammettere, sì, anche in questa cella da criminale, mi vergogno quasi di ammetterlo che il terrore e l’orrore suscitati in me dall’animale avevano trovato incentivo in una delle più folli chimere immaginabili. Più di una volta mia moglie aveva richiamato la mia attenzione sul carattere della chiazza di peli bianchi di cui ho parlato, e che costituiva l’unica differenza visibile fra la strana bestia e quella da me massacrata. Il lettore ricorderà che questa chiazza, sebbene estesa, era in origine assai indefinita; ma passo passo – a gradi quasi impercettibili, che per molto tempo la mia ragione si adoperò a respingere come fantasia bizzarra – aveva finito per assumere una rigorosa nettezza di contorni. Era adesso la raffigurazione di un oggetto che rabbrividisco a nominare – e per questo soprattutto aborrivo e temevo il mostro, e me ne sarei sbarazzato SE AVESSI OSATO – era adesso, dico, l’immagine di una cosa orrenda, malaugurata: della FORCA!

Oh, luttuoso e terribile meccanismo di Orrore e Delitto, di Agonia e Morte! E ora davvero ero disperato di una disperazione che la semplice Umanità non conosce. Ed era UN ESSERE BRUTO a ordirmi: a ME, uomo fatto a immagine di Dio, tanto insopportabile affanno! Ahimè! né di giorno né di notte conobbi più la benedizione del riposo! Di giorno l’animale non mi lasciava solo un momento, e di notte mi svegliavo di soprassalto da sogni di indicibile paura per trovarmi sulla faccia l’alito caldo della bestia, e il suo gran peso, un incubo incarnato che non mi potevo scuotere di dosso, gravante per sempre sul MIO CUORE. Sotto la pressione di tormenti come questi, il fioco residuo di bene che avevo in me finì per soccombere. Pensieri malvagi divennero i soli abitatori della mia intimità; i più neri e malvagi. Il mio temperamento già così lunatico si acuì fino a odiare tutto e tutti; mentre i repentini, frequenti e incontrollabili scoppi di una furia alla quale mi abbandonavo ora ciecamente trovavano, ahimè, in mia moglie, aliena com’era da lamentele, la vittima più consueta e paziente.
Un giorno essa mi accompagnò, per qualche faccenda domestica, nella cantina del vecchio edificio che la povertà ci costringeva ad abitare. Il gatto mi seguì per le ripide scale, e facendomi quasi capitombolare mi esasperò fino alla follia. Brandendo alta un’ascia, e scordando nella collera il timore infantile che mi aveva finora fermato la mano, vibrai all’animaletto un colpo che certo gli sarebbe risultato istantaneamente fatale se fosse calato come volevo io. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. Aizzato dalla sua interferenza a una rabbia più che demoniaca, liberai il braccio dalla sua presa e le affondai l’ascia nel cervello. Cadde morta sul posto senza un gemito.
Compiuto questo orribile assassinio, mi accinsi seduta stante, e con piena coscienza, all’impresa di occultare il cadavere. Sapevo bene di non poterlo asportare dalla casa, di giorno o di notte, senza il rischio di essere osservato dai vicini. Molti disegni mi affollarono la mente. A un dato momento pensai di tagliare il cadavere in minuti pezzi e distruggerli col fuoco. Poi invece decisi di scavargli una tomba nel pavimento della cantina. Ancora, ventilai tra me e me l’idea di gettarlo nel pozzo del cortile, di imballarlo in una cassa come fosse una merce qualsiasi, con le solite formalità, e chiamare un facchino che lo portasse via. Infine mi balenò un espediente che consideravo molto migliore di questi. Decisi di murarlo in cantina, come si vuole che i monaci medioevali murassero le loro vittime.
A uno scopo simile la cantina si prestava benissimo. Aveva muri poco compatti, e il rozzo intonaco di cui erano stati recentemente spalmati da cima a fondo non aveva potuto indurirsi per via dell’atmosfera umida. Inoltre una parete presentava una sporgenza, dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita così da assomigliare al resto della cantina. Non dubitai minimamente di poter smuovere i mattoni in questo punto per poi inserirvi il cadavere e murare tutto come prima in modo che occhio umano non riuscisse a scoprirvi indizio alcuno. E in tale calcolo non mi ingannavo.

Mediante una grossa sbarra di ferro sloggiai facilmente i mattoni, e deposto attentamente il corpo contro la parete interna ve lo rizzai in tale posizione, mentre con poca fatica rimisi tutto a posto come prima. Procuratomi un po’ di calcina, sabbia e pelo, con ogni precauzione possibile, preparai un intonaco indistinguibile dal vecchio, e con esso diedi una passata meticolosa all’ammattonato nuovo. Quand’ebbi finito, mi sentii sicuro che tutto andava bene. Il muro non dava il minimo segno di ritocco. La spazzatura fu raccolta da terra con la massima cura possibile. Mi guardai attorno con aria trionfante, e mi dissi: “Qui almeno la mia fatica non è stata vana”.
Il passo successivo fu di cercare la bestia che aveva provocato tanta malvagità; poiché mi ero infine fermamente deciso a metterla a morte. Se avessi potuto incontrarla al momento, sul suo destino non avrebbero potuto esserci dubbi; ma a quanto pareva lo scaltro animale si era allarmato della mia violenta collera precedente, e con l’umore che avevo adesso si guardava bene dal farsi vivo. Impossibile descrivere o immaginare il profondo, beato senso di sollievo che l’assenza dell’odiato animale mi suscitò in petto. Non comparve durante la notte e così per una notte almeno, dacché era entrato in casa, io dormii saporitamente e tranquillo; sì, DORMII pur col fardello dell’omicidio sull’anima.
Passarono il secondo giorno e il terzo, e ancora non si vedeva il mio tormentatore. Ancora una volta respirai da uomo libero. Il mostro, terrorizzato, era fuggito per sempre da casa mia! Non l’avrei rivisto più! La mia felicità era suprema! Ben poco mi turbava la colpa del mio misfatto. Si erano fatte alcune indagini, ma avevano ricevuto pronta risposta. Era stata predisposta anche una perquisizione, ma naturalmente nulla si poteva scoprire. Guardai alla mia felicità futura come cosa assicurata. Il quarto giorno dell’assassinio, venne in casa senza preavviso una squadra di poliziotti, che procedettero a una nuova rigorosa investigazione dei locali.
Sicuro però dell’introvabile nascondiglio che avevo prescelto, non provavo il minimo imbarazzo. I funzionari mi ordinarono di accompagnarli nella perquisizione. Non lasciarono inesplorato nessuna nicchia o angolo. Finalmente, per la terza o quarta volta, scesero in cantina. In me non tremava un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un sonno innocente. Percorsi la cantina da un capo all’altro. Mi ripiegai le braccia sul petto, e girellai disinvolto. Quelli della polizia erano più che convinti, e si disposero ad andarsene. La gioia era troppo forte perché potessi contenerla. Smaniavo dalla voglia di dire almeno una parola, in segno di trionfo, e raddoppiare in loro la certezza della mia innocenza.
“Signori,” dissi alfine, mentre il gruppo risaliva le scale, “sono felice di aver placato i vostri sospetti. Vi auguro salute e un po’ più di cortesia. Tra parentesi, signori miei, questa, questa è una casa molto ben costruita,” (nella smania di buttar là parole disinvolte, non sapevo quasi che cosa dicessi), “direi anzi una casa costruita in maniera ECCELLENTE. Questi muri – ve ne andate, signori? – questi muri sono solidamente fabbricati”; e qui, per pura frenesia di fare una bravata, picchiai forte con un bastone che avevo in mano proprio su quella parte dell’ammattonato che dietro di sé celava il cadavere della mia povera moglie. Ma possa Iddio proteggermi e salvarmi dalle zanne dell’Arcidiavolo! Il riverbero dei miei colpi si era appena smorzato, che mi rispose una voce dall’interno della tomba; con un grido dapprima attutito e rotto come il singhiozzo di un bimbo, e poi rapidamente acuito fino a diventare un lungo urlo sonoro e ininterrotto, assolutamente anomalo e inumano: un ululato, un grido lamentoso, metà d’orrore e metà di trionfo, come avrebbe potuto sorgere solo dall’inferno, dalle gole dei dannati nel loro spasimo congiunto all’esultanza dei demoni. Dei miei pensieri è follia parlare. Svenendo, barcollai per andare ad appoggiarmi alla parete opposta.

Per un attimo il gruppo di poliziotti sulla scala rimase immobile, in preda a estremo, sacro terrore. Subito dopo una dozzina di braccia vigorose lavoravano al muro, che cadde di schianto. Il cadavere, già putrefatto in gran parte e incrostato di sangue rappreso, apparve eretto agli occhi degli spettatori. Sulla testa, le rosse fauci spalancate e l’occhio singolo in fiamme, si appollaiava la bestia orrenda che con le sue arti mi aveva sedotto all’assassinio e, con la sua voce accusatrice, consegnato al boia.
Avevo murato vivo il mostro nella tomba.


Il commento

Leggere i racconti “perversi” di Poe è sempre come ritrovarsi a camminare su una corda; si teme di cadere a sinistra (fra le fauci del racconto), si teme di cadere a destra (fra le tenaglie del proprio ego). E’ una sensazione che capita di ravvisare sempre (pensiamo a “Berenice”, a “Il cuore rivelatore”, ecc); l’impressione che ci si stia muovendo su un campo minato, sulla cresta di un limite dove non è concesso spingersi più del dovuto da una parte o dall’altra.

La cosa è dovuta alla straordinaria perizia con cui Poe ordisce le sue trame; non sarebbe possibile spiegarsi in altro modo il fatto che, seppure la narrazione in prima persona (sempre molto impiegata) pare debba quasi necessariamente ricondurre le questioni all’autore, finisce per spostarsi sorprendentemente verso di noi, tirandoci per mano all’interno, con corto guinzaglio, sul filo del rasoio.

Non si tratta di andare a cercare morali o conclusioni che vadano ad archiviare in questo senso la pratica, si tratta di capire l’analisi, di affacciarsi alla realtà che ci viene presentata senza che venga contaminata da giudizi di merito (gli stessi possono nascere in noi, ma NON sono per nulla suggeriti dall’autore). Una prosa analitica che ricerca la matrice comune della condizione umana, e la ritrova nel male presente e ben celato (o meno, dipende dai casi) nel più profondo di noi. Basta un nonnulla perchè il “diavolo” faccia scoccare la scintilla che accende il fuoco del male e della perversione: un gatto nero che cambia atteggiamento (o forse è il protagonista a cambiarlo). Gatto nero di medievali rimembranze; fa pensare al grigio periodo delle streghe e dell’Inquisizione.

Il racconto non può che chiudersi con la scoperta del misfatto, ed è lo stesso gatto che svela il nascondiglio; il male che si rivela perchè non può rimanere nascosto, soprattutto alla luce di un’analisi come quella che Poe ci offre con questa bellissima prosa.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :