Editori che non.

Creato il 02 ottobre 2014 da Thais @la_traduttrice

Il “non” del titolo sta per non pagano, non citano, non revisionano, insomma, non svolgono il loro lavoro come dovrebbero. Ultimamente i traduttori stanno alzando la voce, e considerando che fino a poco tempo fa abbiamo solo sussurrato, se non taciuto, direi che questa è un’ottima notizia.

La notizia più “scandalosa” degli ultimi giorni è l’iniziativa di Federico Di Vita, il quale ha scritto sulla bacheca di un editore che non lo paga da 13 mesi per chiedere pubblicamente di provvedere. È intervenuta la proprietaria della casa editrice in questione, e ne è nato un acceso dibattito (al momento non più integralmente disponibile – lo sapevo che avrei dovuto salvarmi gli screenshot!). In sostanza, l’editore ammette difficoltà finanziarie e proclama la propria buona fede e l’intenzione di pagare. Il problema è che con le buone intenzioni non si pagano le bollette, e ancora una volta i collaboratori esterni del mondo dell’editoria – in questo caso si trattava di revisione e non di traduzione – si rivelano essere l’ultima ruota del carro.

È un po’ che si parla dell’argomento, e le opinioni sono contrastanti: se tutti ammettono che pagare chi lavora è un sacrosanto dovere, alcuni tuttavia giustificano le case editrici insolventi perché in fondo “c’è crisi per tutti”. Il che è sicuramente vero, in questo momento l’editoria non è certo un settore dalle rosee prospettive. Però, ha senso impegnarsi in un progetto e farci lavorare della gente se si sa che poi questa gente non potrà essere pagata? Ha senso costringere un lavoratore a rivolgersi a un avvocato per ricevere quanto gli spetta, magari spendendo anche più di quel che gli è dovuto? Le risposte sembrano scontate ma non lo sono.

A volte un post sui social network è più potente di una minaccia di denuncia, e inoltre stimola un dibattito che riesce ad accendere anche gli animi più miti. Negli ultimi mesi questo è avvenuto non soltanto per quanto riguarda i pagamenti, ma anche per un altro diritto del traduttore, quello di essere citato insieme alla propria traduzione.

Un esempio? Tempo fa pubblicai sulla mia pagina Facebook lo screenshot di uno scambio di battute su Twitter tra l’account di Einaudi e la traduttrice Isabella Zani. A mio parere le risposte di Einaudi (del suo portavoce su Twitter, ok, ma se in quel momento pubblichi con l’account Einaudi, tu SEI Einaudi) erano state piuttosto scortesi, per non dire maleducate. Nei commenti al post, molti erano d’accordo con me, ma molti altri hanno colto l’occasione per far notare quanto siano noiosi e rompiscatole i traduttori che chiedono di essere nominati (dimenticando che è un diritto stabilito per legge, non un capriccio). Cito:

Perché non il nome font tipografico. O il nome dell’impaginatore. O dell’editor.

E, parlando della scarsa qualità di alcune traduzioni oggi in commercio:

beh, allora che [i traduttori] abbassino i prezzi. Gli autori rischiano, mettendosi in gioco senza sapere se venderanno mai. Gli editori rischiano, producendo senza essere certi del rientro economico… Iniziassero a lavorare come noi [autori] prendendo piccole percentuali sui libri.

Insomma, secondo alcuni il traduttore dovrebbe assumersi il rischio imprenditoriale, secondo altri il suo lavoro è paragonabile a quello dell’impaginatore (lavoro di tutto rispetto, ovviamente, ma che non presuppone meriti autoriali), e in ogni caso dovrebbe abbassare le pretese. “Pretese” che, lo ripeto, sono stabilite dalla Legge 633 del 22 aprile 1941, art. 70.

Lo stesso screenshot è poi stato pubblicato su Social Media Epic Fails – e qui ringrazio per la segnalazione Luca Pantarotto di Holden&Company, altro paladino della correttezza in campo editoriale – dove ha ricevuto un bel po’ di commenti non esattamente gentili nei confronti di Isabella Zani, che per fortuna è abbastanza consapevole da sapersi difendere benissimo da sola (inoltre alcuni commenti, scusate il gioco di parole, si commentavano da soli per maleducazione e insolenza). La cosa peggiore, però, è che anche diversi traduttori in quell’occasione si sono schierati dalla parte dell’editore. Se i nostri diritti non li difendiamo noi, come possiamo sperare che gli altri li comprendano?

Quando però vengono pubblicate schifezze immonde tutti sono pronti a lamentarsi dei traduttori. L’ho fatto io stessa in un post leggermente irritato che presentava una serie di foto di una traduzione davvero pessima, inguardabile, roba che nemmeno Google Translate avrebbe potuto concepire (o forse sì). Tipo che, all’acquario, una bambina piccola batteva “sul bicchiere” anziché “sul vetro”. Tutti sono stati d’accordo sul fatto che fosse uno scandalo. La casa editrice, interpellata, non mi ha mai risposto. Non so se la traduttrice sia stata pagata, quanto tempo le sia stato concesso, ma sicuramente su quel libro non è stato fatto nessun tipo di editing, e questa è una colpa della casa editrice che ha messo in circolazione il libro, non della traduttrice. Si sa che i traduttori diventano visibili solo quando “sbagliano”, in tutte le altre occasioni devono starsene buoni e zitti nel loro angolino.

Tornando all’argomento più scottante, nell’ambiente della traduzione editoriale si parla da tempo di fare i nomi degli editori insolventi, di denunciare pubblicamente i singoli casi, ma non se n’è ancora fatto nulla, e nessun giornalista ha ancora fiutato lo scoop, come ha fatto giustamente notare Federica Aceto (fra l’altro, se non conoscete ancora il suo blog, ve lo consiglio caldamente). Per un certo periodo è stato aperto il blog Editori che pagano, ma anche quello è stato subissato di critiche.

In sostanza, quando un editore lavora male si vede da tante cose. Una di queste sono i testi poco (o per nulla) curati. Un’altra è il mancato pagamento di coloro che letteralmente “fanno” i libri, li compongono, li sudano parola dopo parola. Secondo molti, evidentemente, i traduttori dovrebbero tornare nell’invisibilità da cui sono sempre stati avvolti, tacendo i mancati pagamenti e quasi quasi ringraziando se vengono retribuiti.

In fondo “è un lavoro talmente bello che si può fare anche gratis”, no?



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