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EDITORIALE: Un’Europa senza gioia va alle urne. Dalla Francia alla Grecia, il voto potrà cambiare qualcosa?

Creato il 30 aprile 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

EDITORIALE: Un’Europa senza gioia va alle urne. Dalla Francia alla Grecia, il voto potrà cambiare qualcosa?

Domenica prossima, 6 maggio, sarà giornata elettorale in molti Paesi europei. Eppure il voto non sembra in grado di produrre, qualche che ne sia l’esito, i cambiamenti necessari al vecchio continente. Tra esecutivi da eleggere ed esecutivi che cadono, l”Europa difficilmente troverà nuova linfa in questo maggio di crisi. Una crisi che ci sembra una e trina: economica, politica e morale. Senza inni alla gioia il vecchio continente s’avvita su sé stesso, al passo marziale d’una prussiana cavalcata wagneriana

Francia, Grecia, Serbia, Armenia (e Italia, anche se solo per le amministrative) andranno alle urne la prossima domenica. Se qualche cambiamento può venire dalla politica, forse è necessario che passi prima da Parigi, capitale morale del vecchio continente. In Francia si voterà per il secondo turno delle presidenziali, la sfida è tra Sarkozy e Hollande, e per chi la osserva dall’esterno è arduo non vedere in Sarkozy la continuità politica per una Francia allineata alla Germania della quale è socio debole. La Germania che chiede rigidità, ed è facile per lei visto che è l’unica coi conti a posto. La Germania che presta soldi ai Paesi in crisi e ne ricava interessi milionari, lucrando di fatto sul salvataggio della Grecia. La Germania che controlla mezza Europa, dal Baltico alla Croazia, con la Francia imbolsita e l’Italia sciocca a darle spago. La Germania, appunto, che fa risuonare le note del suo trionfo wagneriano nelle cancellerie d’Europa. Un trionfo tragico, mentre in Europa la gioia del celebre inno non si sa più dov’è di casa. Intanto cadono i governi: Olanda, Romania, ma anche Repubblica ceca e Spagna rischiano. Governare, dare stabilità e continuità politica, è sempre più difficile. E quando i governi democratici non stanno più in piedi non è un buon segno.

Dicevamo come Berlino guadagni dalla crisi ottenendo interessi milionari dai soldi prestati alla Grecia per salvarne, di fatto, il sistema finanziario e non per risollevarne l’economia. Soldi che la Grecia, a colpi di rigidità, dovrà restituire a ogni costo: ad Atene non è concesso fallire, non è concesso uscire dall’euro (ipotesi che in ogni caso porterebbe ad effetti a catena di difficile previsione), non è concesso nemmeno gestire i soldi ricevuti, che la Germania vorrebbe veder confluire su un conto “speciale” su cui il governo greco non possa metter le mani. E in questa Grecia si vota. Ma non cambierà nulla. I partiti sono gli stessi di sempre, gli stessi che hanno condotto il Paese fin dentro la tragedia truccando i conti economici. Le formazioni populiste, di estrema destra o estrema sinistra, che cavalcano il malcontento non saranno certo in grado di dare soluzioni poiché il populismo è destruens, mai costruens. E il futuro governo, qualche sia, sarà ostaggio di queste formazioni politiche date in sicura crescita. Ad Atene, però, sperano nella Russia. L’antieuropeismo greco si traduce in Vladimir Putin, salvatore dell’ellade in nome della comune fede ortodossa, San Giorgio a cavallo che uccide il drago della finanza selvaggia. Pare che il Cremlino sia infatti interessato a fare investimenti nel Paese attraverso il suo braccio energetico, Gazprom.

In Serbia, dove si voterà sia per le presidenziali che per le politiche, il presidente uscente Boris Tadic rischia di non essere rieletto. Eppure, pur tra mille incertezze, ha condotto il Paese verso l’agognata mèta europea. Solo che adesso, l’Europa, non è più agognata dai serbi. Uno dei popoli più frustrati del vecchio continente, in preda alla crisi economica, ha forse voglia di grandeur nazionalistica e comunque non vede di buon occhio questo gigante minaccioso e oppressivo.

Ovunque, in Europa, è diffuso un sempre più radicato sentimento antieuropeista in nome di un neonazionalismo posteuropeo che, se arrivasse al successo, scardinerebbe l’edifico comunitario in quattro e quattr’otto. Molti hanno voglia di spaccare il sistema, rimescolare le carte, con quel brivido che dà la consapevolezza di correre un pericolo. Molti, nei parlamenti come nei supermercati, per le strade come nelle accademie, sono sedotti dall’idea che senza Europa sarebbe meglio. E se non meglio, diverso. Anche in Francia, sia Hollande che Sarkozy cavalcano questo stato d’animo, pur in modo diversi. L’Europa, è evidente a tutti, è unita solo a parole. Bruxelles, capitale dell’ Unione, non riesce a essere simbolo di unità nemmeno per il Belgio, diviso da questioni etno-nazionaliste. Ma la fine del percorso di unità europea, specie se prodotto dai nazionalismi, potrebbe ricacciare il continente una spirale di violenza incontrollata. Uno spauracchio che porta ancora gli stati a dirsi appartenenti a un’Unione che non c’è. Quel che c’è è egoista all’interno, ipocrita all’esterno, moralmente incerta, ideologicamente ambigua.

Per chi scrive la soluzione resta sempre la stessa: rilanciare il progetto europeo fondandolo politicamente su garanzie di solidarietà ed equità. Una magna charta di valori che si concretizzino in una unità politica realmente democratica. L’Europa dell’economia, delle istituzioni finanziarie, del più grosso che mangia il più piccolo finirà in ogni caso. Ma forse è un sogno, un modo per non arrendersi all’abisso: questa classe politica, dalla Merkel a Sarkozy, da Orban a Fico, dall’Inghilterra all’Italia e alla Spagna, non sa che pesci prendere. E non ha la forza, l’etica, la fame, per cambiare le cose. La fame ce l’ha il milione di disoccupati europei, ma l’iniziativa del popolo affamato si limita a un manzoniano attacco al forno. 

Il 13 maggio si voterà anche nella regione tedesca del Nord Reno-Vestfalia, un land di 18 milioni di abitanti (poco meno della popolazione dell’intera Romania). Un voto che potrebbe avere ripercussioni sul governo del cancelliere Angela Merkel e dei suoi falchi finanziari.


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