Edoardo De Candia, il tratto selvaggio dei colori delle belve

Creato il 22 giugno 2012 da Faprile @_faprile

Il pensée du Midi in Albert Camus, non abbandonarsi alla hybris, al peccato, il senso del limite per non sfociare incondizionatamente né nella ragione, né nella religione, non arrendersi a quel senso tutto europeizzante della catastrofe del vivere, della totalità della ragione. Mantenersi alla giusta distanza, nutrirsi della luce. I colori di Matisse, le belve del fauvismo, le forme allungate delle donne di Matisse, lo strabordare di queste forme, di gambe, braccia, il nudo rosa, corpi distesi danzanti espressione di una dimensione che è affermazione di vita. Edoardo De Candia è sintesi ed evoluzione di tutto questo. Pittore, nato a Lecce nel 1933 e morto, sempre a Lecce, nell’agosto del 1992. Il poeta Antonio Leonardo Verri lo inserì fra i Selvaggi Salentini. I nudi di De Candia sono tratto, sono luce e tormento, espressione di una pittura che è sintesi dell’esperienza selvaggia delle forme e dei colori di Matisse, ma che in De Candia si realizzano, nei nudi, come tratto e desiderio, ritornare a qualcosa di dimenticato, il raccordo con la coperta delle mancanze, dei turbamenti. La gioia del vivere di quello che Verri definì un “Cavaliere senza terra” è raccontata proprio dal poeta di Caprarica di Lecce che in svariati scritti ed interviste tratteggia la figura essenzialmente Midi del penserio e del gesto di De Candia, che si nutre di luce, di sole, di mare, di un bagno che appartiene a chi sa come accostarsi alle acque per districarvisi in un momento di raccordo ad una dimensione silenziosa perché dimenticata, recondita, nascosta nell’intimo della condizione umana, del nuotare in un universo di luce, di calore che accoglie la vita e sostiene la creazione. I nudi di De Candia rendono chiara una sintesi di tutto questo, esulando dal colore delle forme nelle figure di Matisse, si fanno tratto, lucidità di un desiderio che dall’Altro è frustrato, filtrando il tormento nell’essenzialità delle forme che si aprono alla vita, ma che il vissuto personale del pittore traduce in questa sua sintesi estrema, fra l’esperienza del manicomio e l’inesaurita richiesta di vita, nella continua rappresentazione delle forme, dei corpi attraverso cui provare una winnicottiana autoesperienza di sé, attraverso la ricezione del corpo e della sua immagine. Scrive Francesco Saverio Dòdaro, nel volume “Edoar Edoar” curato da Maurizio Nocera per le edizioni Il Raggio Verde nel 2006, che le coperte del letto con le quali Edoardo De Candia, disteso, gioca, sono «un’inquadratura di grande interesse: fotogrammi winnicottiani, connotativi di profonda solitudine, di richiesta d’amore, di protezione maternale. E qui l’aggettivo va ampliato, va vocalizzato tra i lampioni spenti dell’agorà e i camici bianchi della follia. Tra le manette e l’elettroshock. Il gioco delle coperte. E lo sputo. Il rutto. Lo sperma. Tutta da sviluppare la com-prensione». Edoardo De Candia, «una delle figure artistiche più sottovalutate del nostro ‘900» (Egidio Marullo, docente di Storia dell’arte), fu espressione totale dell’arte per l’arte che non si sporca con nulla e continua a generarsi nella purezza della sua luce, nell’incontro mai accantonato, nonostante le vicissitudini, nella continua ricerca di positività che nell’Altro esiste nel possibile delle relazioni sociali. Lucio Fontana, a Milano, si accorse di lui, percependone «il guizzo, la genialità; fino a che trova il modo per mandarlo in Inghilterra, a Londra, presso un college, una buona Accademia d’Arte» (A. L., Verri, Edoardo, un cavaliere senza terra, Sud Puglia, settembre 1988). Ma Edoardo cercava il contatto, come quella parola “Amo” dipinta nel tratto selvaggio dei colori delle belve.

Francesco Aprile
2012-06-22


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