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Edoardo Winspeare e il cinema: il nostro incontro con il regista di “In grazia di Dio”

Creato il 29 agosto 2014 da Filmedvd
Curiosità

Nella cornice della bella manifestazione del Laceno d’Oro, festival irpino giunto alla 39° edizione e che si svolge quest’anno dal 18 agosto al 5 settembre, lunedì 1 settembre a Mercogliano, alle ore 20,30, sarà presentato anche l’ultimo film di Edoardo Winspeare, In grazia di Dio, uscito nelle sale italiane nel marzo scorso e passato al Festival di Berlino nella sezione Panorama. Un’occasione che abbiamo colto per scambiare due parole con il regista, parlando del suo ultimo lavoro ma anche degli orizzonti complessivi del suo cinema, dal punto di vista sia tematico che formale.

 

Edoardo Winspeare e il cinema: il nostro incontro con il regista di “In grazia di Dio”

 

Edoardo Winspeare, In grazia di Dio è un film che parla della crisi economica partendo dal microcosmo di una realtà ristretta. Ti trovi a tuo agio con un cinema così intimo? L’ambiente circoscritto ti dà maggiori garanzie, è un portale privilegiato per raccontare temi enormi o comunque più grandi?

Racconto il microcosmo semplicemente perché il microcosmo è ciò che conosco meglio. L’Italia poi è un paese composto da vari microcosmi interni, interessante dal punto di vista regionale come nessun altro paese al mondo, probabilmente. Il Sud, in particolare, è un continente vero e proprio all’interno di una nazione. E da un microcosmo all’altro ci sono differenze pazzesche: lingua, facce, aspetti di superficie ma anche di profonda sostanza. Se parliamo una lingua, e nei miei film si parla una lingua specifica che è quella del Salento, è perché c’è un passato secolare dietro di noi che reclama la sua autenticità. Ed è ciò che mi interessa scorgere. Ad esempio, mia moglie Celeste Casciaro e sua figlia, che recitano insieme nel film, tra di loro parlano sempre in dialetto.

 

Quanto conta per te la dimensione familiare nelle storie che racconti? E’ un elemento confortevole, pieno di sicurezze che si ricollega al concetto di microcosmo. Qui abbiamo un gruppo di donne, in Sangue vivo, per esempio, c’erano due fratelli.

Per noi del Sud ovviamente la famiglia è importantissima, e per me come regista non può essere altrimenti. Il film è uscito da poco in Norvegia, e lì per esempio mi rendo conto che la famiglia è molto meno importante. C’è lo Stato che è un Golem e la famiglia è piuttosto secondaria nella loro scala di valori. Per noi invece lo Stato è qualcosa di assolutamente irrilevante, in cui non credere, e di fatto non c’abbiamo mai creduto. Per tanti motivi storici non è mai stato quel nucleo fondante che avrebbe dovuto essere. Io ci credo, personalmente e senza voler salire su un piedistallo, ma mi rendo conto delle ragioni per cui per la maggior parte delle persone questo meccanismo non scatta. Da noi il vero ammortizzatore sociale è la famiglia. Nella dimensione familiare c’è poi qualcosa di fantastico ma anche qualcosa di opprimente, qualche volta si può degenerare nel familismo, ma trovo interessanti le strutture familiari in quanto si tratta di un altro caso in cui il micro racconta il macro, un universo in cui si può anche essere atei ma si è comunque cattolici dentro in virtù delle proprie origini inestirpabili. Io poi sono un miscuglio di razze, per cui vedo le cose anche da più lenti contemporaneamente, forse.

 

Edoardo Winspeare e il cinema: il nostro incontro con il regista di “In grazia di Dio”

 

Nei tuoi film, anche quando c’è un realismo di fondo come in questo caso, si respira sempre una sensazione particolare, un po’ come il candore delle fiabe, quasi come se non potessi fare a meno di sfiorare il realismo magico. Questo film non è Il miracolo, chiaramente, di sicuro la tua opera più sbilanciata in questo senso, ma quel tipo di leggerezza continui a mantenerla.

E’ vero, penso a Pizzicata soprattutto, che era una fiaba in tutto e per tutto. Per me è inevitabile, perché trovo che non possa esserci solo la nuda e cruda periferia, quella periferia che si riduce in retorica del degrado il più delle volte. Io posso anche raccontare storie dure ma lascio sempre uno spazio vitale per il sogno, che può essere un boss della Sacra Corona Unita che vuole comprarsi Lecce ma anche altro.

 

Roberto Saviano ha definito il tuo film “la prima vera opera su ciò che stiamo diventando e cosa stiamo perdendo”. Trovi che ripartire da una dimensione rurale, rispettosa della terra e dei suoi valori di generosità, sia la chiave di volta per porre fine a molte problematiche e vedere le cose dalla giusta ottica?

Sì, Saviano forse è stato fin troppo generoso, ma ha colto il senso dell’opera. Io non voglio passare per passatista, sia chiaro, ma trovo fondamentale recuperare il valore spirituale e identitario della terra, pure sotto il profilo alimentare (anche solo per sapere ciò che realmente mangiamo, banalmente). Rinascere davvero significa anche recuperare quello che siamo stati, un’identità che non si vergogna di essere contadina; dopotutto non dobbiamo vergognarci né di essere meridionali né della nostra cultura. Tutti esaltano personaggi come Henrik Ibsen ma poi si disconoscono i traghettatori della lingua latina come Livio Andronico ed Ennio, mortificati con il solo studio nei licei e non valorizzati a dovere come meriterebbero. Nessuno sa niente dell’illuminismo napoletano, di Carmelo Bene, e io personalmente trovo che ci sia un classe dirigente che fa di tutto per tenere una certa cultura lontana dal popolo e dalla reale percezione di tutti. Io a volte sono populista ma mi piace esserlo in modo sano su queste cose; al valore artistico ma anche sociale di certe cose dopotutto credo molto.

 

Edoardo Winspeare e il cinema: il nostro incontro con il regista di “In grazia di Dio”

 

In grazia di Dio ha un’inquadratura finale molto bella e assai ricercata, e in generale i tuoi film hanno sempre dei finali molto calibrati e pensati, oltre che azzeccati e potenti. Lavori in modo particolare sui congedi dei tuoi film?

Guarda, dei miei film conosco l’inizio e la fine, so perché voglio fare un film e mi figuro i due estremi. Dopodiché ci metto dentro tutta la parte centrale. L’immagine finale del film in questo caso è stata però il punto di partenza: quelle donne riunite insieme, mia moglie e la figlia di mia moglie con il loro rapporto di amore / odio che ho riversato dentro il film e le altre presenze femminili che gravitano loro intorno. A livello pittorico era un po’ la deposizione di Gesù Cristo il mio riferimento mentale, anche con quel carrello all’indietro e quel tipo di cornice per la scena.

 

Tu hai fatto anche documentari. Qualche giorno fa riguardavo una conferenza stampa in cui Jonathan Demme, uno che di documentari ne sa qualcosa, parlava di “mutua fecondazione” tra fiction e documentario: fare del documentario che sia interessante come la fiction e della fiction con degli elementi di realismo marcati, assoggettabili alla vita vera. Che ne pensi?

Mi trovo d’accordo con Demme, ovviamente. Io nel mio piccolo voglio sempre che tutto ciò che faccio sia interessante, anche se non ci riesco tutte le volte. Ad ogni modo non mi innamoro delle mie inquadrature e non voglio mai sentenziare discorsi troppo filmici o intellettualistici. Voglio che lo spettatore rimanga incollato allo schermo, poi ovviamente quando ti confronti con il cinema di finzione devi pensarla pure in termini più commerciali. Anche in In grazia di Dio, ad esempio, ci sono dei piani-sequenza, c’era sì una sceneggiatura, ma ho lasciato spazio pure agli attori. Finché improvvisi va bene, l’importante è che ci siano una testa e una coda, e che ciò che fai mi porti alla scena successiva. Nel film c’è una scena tra Stefano e Adele in riva al mare che è totalmente improvvisata, in cui i due parlano della vicina Grecia e ridono insieme. Di sequenze così ce ne sono tante, nel film, tantissime. Anche per ciò che riguarda mia moglie e sua figlia sono stato un anno a lavorare con loro, a sentire le loro voci parlare e duellare. Il cinema non è solo immagine, ma anche orecchio, e l’italiano come lingua comune è piuttosto recente. E poi quelle donne del Sud, che parlano anche con i loro occhi schivi, attraverso i quali esprimono pudore, garbo, riservatezza: tutta la diffidenza verso secoli di dominazioni straniere le donne del Sud ce l’hanno scolpita negli occhi.

 

In chisura, visto che siamo agli inizi della Mostra di Venezia, su quali film hai aspettative e su chi punteresti? E cosa ne pensi della selezione italiana, che quest’comprende anche il nuovo film di Mario Martone? Tu hai recitato con lui in Noi credevamo.

Auguro il meglio a tutti loro, anche a Mario Martone ovviamente. Ripongo molte aspettative nel film di Francesco Munzi, Anime nere, anche per ciò che gli sta alle spalle e per il modo in cui è stato girato. Per quanto mi riguarda potrebbe essere il film rivelazione della Mostra.

 

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