Édouard Manet a Venezia: visioni rivoluzionarie

Creato il 31 maggio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Pier Paolo Scelsi

Recentemente il principale giornale della mia città è caduto nel più classico degli errori che si compiono riguardo l’artista de Le déjeuner sur l’herbe, strillando in prima pagina “L’Impressionismo di Manet torna a Venezia”. Il titolo, nella sua assolutezza un tantino vaga e presuntuosa, lascia quanto meno perplessi dal momento che, come tutti sanno, Édouard Manet, pur essendo stato individuato dalla critica come un precursore della poetica pittorica dei vari Cézanne e Monet, non aderì mai alla corrente impressionista e si rifiutò sempre di partecipare alle esposizioni del gruppo, mirando piuttosto a proporre le sue opere al Salon della capitale francese. Che vi siano nello stile, soprattutto dell’ultimo Manet dedicatosi alla pittura en plein air, un’eco, un’assonanza con la contemporaneità impressionista è fuor di dubbio, esattamente come inconfutabile è il fatto che egli, anche in queste opere più recenti, mantenne quella struttura del racconto derivata dalla “narrazione di storie” che non fu mai propria dei contemporanei come Corot i quali preferivano dipingere “d’après nature”. Nato a Parigi nel 1832 Édouard venne spinto, fin dalla giovane età, ad avvicinarsi all’opera del Quattro-Cinquecento europeo. Fu lo zio materno, infatti, a condurlo, piccolino, per la prima volta nelle sale del Louvre, luogo che divenne fulcro principale dello studio e della ricerca durante l’intera vita del pittore, instaurando un dialogo permanente con i grandi maestri dai quali in maniera profonda e attenta recepì le lezioni e trasse ispirazione continua e feconda. Le stesse sale, di ritorno da un’infruttuosa esperienza come allievo ufficiale della marina, lo ospitarono poi, più maturo insieme all’amico Antonin Proust, quando la sistematica puntale copiatura delle opere del Rinascimento italiano fece da stimolo, prologo e primo passo verso il primo viaggio a Venezia nel 1853.

Il compito della mostra Manet – Ritorno a Venezia, a cura di Stéphane Guégan, che si avvale della direzione scientifica di Guy Cogeval e di Gabriella Belli, è esattamente quello di regalare ai suoi spettatori una inedita e puntuale ricerca riguardo questa formazione poetica che vede l’arte del maestro francese permearsi di una italianità e di una venezianità spesso messa in secondo piano rispetto all’influenza che indubbiamente i grandi spagnoli come Goya o Velázquez o El Greco ebbero su di lui. Questa innovativa chiave di lettura, che eleva la mostra ad operazione di ricerca culturale di altissimo livello, viene perseguita e resa palese mediante incredibili accostamenti tra ben un’ottantina di opere di Manet provenienti sia da collezioni private, sia, in gran parte, dal prestigioso Musée d’Orsay, e altre della tradizione rinascimentale italiana fatte giungere a Palazzo Ducale dai luoghi più importanti del patrimonio artistico italiano. Il vero e proprio colpo di teatro della mostra lo abbiamo sin dalla seconda sala. Entrando e volgendo lo sguardo a destra lo spettatore rimarrà senz’altro senza fiato, sospeso e rapito dallo sguardo di due delle più grandi icone della sensualità che la storia delle immagini ci abbia regalato nei secoli. Fianco a fianco, in una piccola stanza di quelli che furono gli appartamenti dogali, sono eccezionalmente esposte l’Olympia del Musée d’Orsay (1863, per la prima volta eccezionalmente fatta uscire dal territorio francese) e il celebre dipinto della Venere di Urbino di Tiziano del 1538 che la Galleria degli Uffizi gelosamente conserva e altrettanto difficilmente presta per iniziative di questo genere.

Le due donne in questa sala, che mai si sono conosciute e frequentate, danno sensazione di essere complici in un muto dialogo, consapevoli l’una dell’altra ammaliano, turbano e seducono. Colpiscono chi le guarda penetrando nell’animo con le armi che il loro tempo e la loro società ha donato. L’erotismo di Olympia è un manifesto che può tranquillamente spingersi fino a raccontare la dimensione dei nostri tempi. Ella, infatti, illuminata da una luce diretta che ne evidenzia e ne risalta il biancore dell’incarnato del corpo nudo (ottenuto utilizzando la “tecnica à plat” ovverosia omettendo i passaggi chiaroscurali e ottenendo una spazialità che evidenzi il “primo piano” rispetto alla resa prospettica), si erge dal talamo del piacere fissando insolente e in maniera diretta il proprio amante; non trapela timidezza o indecisione e, anzi, sembra porsi in maniera quasi indifferente e sfrontata nei confronti di chi le sta di fronte, delegando al buio alle sue spalle il simbolo della lussuria, mentre la mano sinistra si posa sul pube quasi a porre una barriera che solamente Olympia e solamente alle sue condizioni concederà di far cadere. A fianco a lei, in una posa che nella struttura formale può definirsi pressoché affine alla precedente, incontriamo l’erotismo “carnale” che Tiziano concepì per questo quadro nuziale dipinto per il Duca Guidobaldo II Della Rovere. La sensualità di Venere è certamente più velata e meno palese, ma si carica di quell’intrinseco sotteso, di quella tensione avvolgente che ne amplifica e ne fa irrompere la forza coinvolgendo, ghermendo, turbando lo spettatore. Il contatto con l’oggetto dell’amore non è diretto.

Il capo, leggermente piegato verso il basso e a destra, regala uno sguardo languido e denso di promesse, mentre i capelli biondo rame, dolcemente ed eroticamente sciolti sulle spalle dall’incarnato roseo e sanguigno, rimandano al mazzolino di rose rosse che la donna impugna nella mano destra, simbolo di Venere per eccellenza. Ai piedi del letto, dove per Manet si erge un gattino nero dagli occhi gialli e demoniaci, dorme docile un cagnolino, simbolo di fedeltà che si palesa in un dipinto “coniugale” ma anche simbolo di quella lussuria che una “Venere mondana a palazzo” (Augusto Gentili) non nasconde e anzi palesa in un gesto pudico e lascivo di quella mano sinistra che morbidamente si posa tra le gambe in un tocco leggero che non può porre certo ostacolo. La grandezza del maestro cadorino, universale e che trascende il tempo, risulta ancora più presente e viva in questo accostamento con un genio moderno, il quale proietta sapientemente e declina, introducendo al Novecento, la tradizione rinascimentale veneziana dalla quale è stato palesemente influenzato. Tesi riscontrabile andando avanti nelle sale, quando ai capolavori di Manet vengono accostati lo stesso Tiziano, Lorenzo Lotto, Tintoretto oppure Vittore Carpaccio. Nella versione londinese della Courtauld Gallery de Le déjeuner sur l’herbe traspare quell’influsso tizianesco che, probabilmente si pone alla base del rifiuto che la comunità della critica di fine Ottocento pose riguardo a questa tela.

Più azzardato dal punto di vista storico-scientifico, ma non per questo meno affascinante, è l’accostamento tra Il balcone (1869) e le cosiddette Due dame veneziane di Carpaccio (1495 circa). Se nel progetto strutturale dell’opera, seppur ruotato di novanta gradi, possiamo incontrare un’assonanza che porti a pensare che Manet racchiuse nel suo patrimonio iconografico personale l’opera del Museo Correr, più difficile è ricostruirne un ideale ponte programmatico. Le suddette “dame” vennero viste e raccontate, quasi in tempi coevi alla visita di Manet a Venezia, da John Ruskin che le definì erroneamente “cortigiane” indicandone peraltro lo sguardo come “lascivo e stanco” tipico delle donne che svolgono quella professione. È quindi possibile pensare che in quegli anni lo stesso Manet possa essere caduto nel medesimo fraintendimento. E quindi immaginare che quest’opera, dal tema così particolare e controverso, possa essere parente diretta di un capolavoro nel quale venne dipinta e ritratta Berthe Morisot, cognata dal pittore, è una tesi che plausibilmente andrebbe approfondita ulteriormente, rimanendo per ora consci che la fonte più vicina per questo quadro rimangono le Majas al balcone di Francisco Goya. Sono negli ultimi anni i recenti studi hanno liberato la tavola carpaccesca da questo titolo ignominioso, riconoscendo le donne come delle patrizie veneziane (molti sono gli elementi rimandanti alla castità e alla fedeltà matrimoniale presenti nella composizione) annoiate e non stanche, nell’attesa del ritorno dei mariti da quella caccia dipinta in una tavola del J. Paul Getty Museum di Los Angeles che null’altro è che la parte superiore di una struttura pittorica omogenea e unica.

Altrove nell’esposizione i parallelismi risultano certamente inconfutabili e pongono lo spettatore dinnanzi ad analogie suggestive. È il caso dell’autoritratto di Tintoretto (del quale, nella mostra, è fruibile una copia autografa dello stesso Manet) che si porrà ad evidente esempio quando il pittore francese volle riprodurre il ritratto di suo padre. Oppure quando Édouard, repubblicano convinto ma non anticlericale, si cimenterà in una toccante rappresentazione della Passione di Cristo che trova, nella sala IV di Palazzo Ducale, la propria fonte nel Cristo morto sostenuto da tre angeli (1475) di Antonello da Messina. La mostra, visitabile fino al 18 agosto, si erge sul panorama della proposta italiana sia per la ricchezza delle opere fatte giungere in laguna, che porta ad un percorso ampio ed esaustivo della produzione del maestro francese, sia e soprattutto nella concezione non meramente commerciale ed espositiva che una monografica di un artista, nel tremendo mondo del marketing definita “blockbuster”, può portare. Quella sotto l’egida della fondazione Musei Civici di Venezia è difatti una stupenda operazione in primis culturale. Poggia il suo messaggio su una linea critica e interpretativa innovativa non scevra da proposte coraggiose che pongono e propongono una rilettura storica e forse rivoluzionaria dell’opera di Manet.


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