Effetto farfalla

Da Nefarkafka666

“Merda” imprecò Pasquale a denti stretti.

Si era sempre preso cura del suo bonsai. Ci teneva moltissimo e vedere quel microscopico, miserabile insetto che bivaccava sulle foglioline sacre del suo ligustrum lo mandò in bestia.

“Vaffanculo” pensò “ti sistemo io…”

La cosa lo infastidiva ma non lo preoccupò: aveva tutto quello che gli serviva per sistemare il piccolo odioso parassita. Sembrava essere solo, ma non si faceva illusioni: senza dubbio ce n’erano degli altri, nascosti da qualche parte. Ma lui sapeva cosa fare.

Da un armadietto sotto il lavello tirò fuori il pesticida. Odiava usare quelle porcherie chimiche: anche se c’era scritto che ad usarle bene erano innocue per le piante e per la gente, non si fidava di una roba che se ti finiva negli occhi dovevi correre in ospedale. Santo dio: dovevi fare attenzione anche se ti capitava su un dito! Però doveva ammettere che funzionava e lui era un esperto: sapeva che si doveva usare solo all’aperto, per pochi secondi e non troppo da vicino. Il rischio ad eccedere? Trovarsi senza parassiti, ma con le foglie e i ramoscelli carbonizzati.

Uscì sul balcone. Un’altra bella giornata di primavera stava volgendo al termine: c’era ancora un po’ di sole e l’aria era tiepida. Ottimo.

Posò il piccolo vaso sulle mattonelle cremisi, infilò un paio di guanti in lattice ed una mascherina e si chinò per esaminare l’arbusto.

Eccoli… carogne… però non erano molto grandi. Buon segno. Comunque erano un bel po’. Pazienza… Tese il braccio tenendo la bomboletta a circa trenta centimetri e premette il pulsante con decisione. La manovra non durò più di cinque secondi, ma valutò di essere riuscito a raggiungere ogni punto. Lasciò disperdere il gas che aleggiava attorno alla piantina e si abbassò di nuovo.

Ad occhio e croce doveva aver nebulizzato per bene e non si erano formate gocce. Erano pericolosissime: in mezza giornata erano in grado di mangiarsi un intero rametto.

Ritenne di aver fatto un ottimo lavoro. Cavò dalla tasca le sigarette e l’accendino e si accese una Diana rossa. Avrebbe rientrato il suo bonsai appena finito di fumare: un po’ d’aria gli faceva sicuramente bene e così il disinfestante avrebbe finito di asciugarsi.

Mentre si godeva la sua sigaretta vide un enorme insetto nero avvicinarsi all’alberello.

Mai vista una bestia così… era senza dubbio una mosca, ma aveva le dimensioni di un calabrone ed il suo ronzio aveva un che di minaccioso. E quel che era peggio era che indugiava intorno al vaso. Non poteva di sicuro nuocere al suo piccolo amico verde, ma non gli andava proprio che gli si posasse sopra.

Figlio di… ti aggiusto io. Buttò la sigaretta e sventolando una mano lo allontanò. Afferrò la bomboletta e lo centrò con un getto talmente violento da spostarlo dalla sua traiettoria.

Pasquale tossì un paio di volte, ma quella specie di elicottero schifoso se n’era andato via seguendo una rotta che gli era sembrata indecisa ed ubriaca.

A stanotte non arrivi si disse soddisfatto.

La mosca, invece, sopravvisse più di quanto Pasquale avesse pronosticato. Subito dopo si era sentita un po’ scombussolata, ma nel giro di qualche minuto aveva ripreso a moscheggiare come al solito.

Volò per la considerevole distanza di circa 800 metri, ma dopo un’ora cominciò ad accusare i primi sintomi di quello che si sarebbe potuto definire un forte malessere.

Alle 21:07:07 se fosse stata un essere umano avrebbe cominciato ad accusare forti dolori addominali, bruciore agli occhi con sdoppiamento della vista ed un pesante senso di nausea. Alle 21:47:43, quando ormai il sole si era completamente spento, avrebbe avvertito tachicardia sistolica, restringimento del campo visivo, ipossia e crampi. Alle 22:13:23 cecità completa, battito cardiaco impazzito, emorragie interne e pressione in calo vertiginoso. Alle 22:19:33 se non si fosse trovata entro pochi minuti in un pronto soccorso ben attrezzato e con medici in gamba sarebbe morta nel giro di un quarto d’ora, ma non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo in un pronto soccorso e, cosa ben più importante, non era un essere umano ma una mosca e poiché non era un essere umano ma una mosca non aveva un numero sufficiente di sinapsi per rendersi conto di quello che le era successo e di cosa l’aspettava. O forse sì… in fondo chi lo sa di cosa è capace realmente il sistema nervoso di un insetto? Magari hanno anche un’anima… Alle 22:27:37 nonostante non vedesse più nulla e le ali non riuscissero quasi più a reggere il suo peso stava facendo ancora l’unica cosa che sapeva fare oltre a razzolare nella merda: volare.

Alle 22:31:36, però, quando le rimanevano ancora poche centinaia di battiti d’ali da fare e ottantasette secondi di vita da vivere fu notata da un pipistrello in pieno giro di perlustrazione e inghiottita al volo.

Nonostante avesse mangiato diverse decine di insetti da quando aveva cominciato a cacciare, quel boccone fu memorabile, enorme, almeno il triplo di una mosca normale. Piroettando intorno ad un lampione emise quello che era l’equivalente pipistrellesco di un rutto soddisfatto.

Con una precisa e millimetrica consapevolezza dello spazio circostante, nelle due ore successive la bestiola fece strage di quasi 700 esserini tra zanzare, moscerini, libellule...

Tuttavia intorno alle 23:10:05 cominciò a sentire un certo fastidio. Un prurito alle estremità ed un forte senso di bruciore allo stomaco. Un uomo, con ogni probabilità, avrebbe preso un paio di Maalox e magari avrebbe tentato di vomitare. Un uomo intelligente avrebbe valutato l’ipotesi di andare da un medico. Ma lui era un essere umano proprio come lo era stata la mosca; lui era un topo con le ali e non sarebbe mai riuscito a raggiungere il velopendulo con le sue zampette rostrate, non avrebbe mai potuto prendere un antiacido perché non sarebbe mai riuscito a toglierlo dal blister e se avesse bussato alla porta di un veterinario sarebbe stato quantomeno bizzarro.

Con cosa lo avrebbe pagato? Larve?

La mosca aveva assorbito una ingente quantità di pesticida altamente tossico e ne aveva parecchio anche sulle ali e su tutto il resto del minuscolo corpo. Un omino con un lieve strabismo aveva sintetizzato il composto quasi vent’anni prima e benché non lo avesse progettato pensando a mosche e pipistrelli ma a vermetti e parassiti, aveva fatto le cose con un certo zelo e aveva messo a punto un pesticida letale per il 95% degli insetti. Anche in dosi minime. Ora il chimico aveva perso parecchi capelli ed un paio di diottrie ma era sempre in sella al suo posto, continuava a fare il suo mestiere con immutata professionalità e alle 23:47:32 di quel giorno era già a letto da un pezzo nella sua graziosa villetta alla periferia di Monaco di Baviera.

Il pipistrello, nel frattempo, aveva subito un innalzamento della temperatura: il veleno che si trovava sulla mosca era subito entrato in circolo e dio solo sa quanto è veloce il metabolismo di un pipistrello in azione. Ora il miserabile insetto era affogato nei succhi gastrici ed il resto delle sostanze tossiche era entrato ufficialmente nella digestione in un tripudio di vasi sanguigni che si crepavano, neurotrasmettitori che si fulminavano come vecchie lampadine e scariche di dolore quasi paralizzante.

Alle 23:58:54 il predatore notturno omaggiò a suo modo un vecchio e dimenticato busto di Cavour che si trovava in un angolo del parco cittadino: uno schizzo di guano fetido e chiazzato di rosso finì sul bronzo ossidato, si spiaccicò sulla fronte e da lì colò con fare imperioso lungo il naso e le guance. Un topolino, che non avrebbe mai potuto cogliere il lato ridicolo della cosa, si appressò alla pozza che andava formandosi per terra, annusò sospettoso e capì che era meglio lasciar perdere: dopo un’occhiata circospetta se ne ritornò sotto il fontanone della villa comunale, in un vecchio tubo del quale la sua famiglia era proprietaria da sei generazioni.

Alle 00:07:09 il pipistrello concluse che quella evacuazione volante, in verità anche un tantino dolorosa per la sua mucosa anale, non aveva sortito effetto, anzi, più il tempo passava più si sentiva peggio. Ciononostante continuò ad acchiappare insetti al volo, anche se in misura largamente inferiore rispetto a quelli che erano i suoi standard abituali. L’idea di fermarsi non lo sfiorò nemmeno e anche se lo avesse fatto non sarebbe servito a molto.

Alle 00:20:58 sbatteva le ali con sempre maggior fatica, il cuore pulsava come una grancassa, aveva perso la sensibilità delle zampe e gli squittii che lanciava erano oramai apertamente di dolore.

Alle 00:27:40 sorvolò a tredici metri d’altezza il passaggio a livello: le sbarre erano chiuse per consentire il passaggio del regionale per Foggia. Un ultimo battito nel petto, un mezzo grido strozzato e la consapevolezza fuggevole di cadere come un vecchio ombrello rotto lanciato in aria.

Era già morto quando atterrò in mezzo a due cassonetti della spazzatura. Il rumore fu sordo e scricchiolante, appena udibile, ma urtò la coda di un gatto che aveva trovato riparo lì sotto e che dormiva beatamente, forse sognando ciotole di latte o topi in fricassea. Si svegliò immediatamente e nel giro di pochi centesimi di secondo la corteccia cerebrale gli aveva già consigliato di levare le tende con la massima urgenza. Non aveva ancora aperto del tutto gli occhi che era già in strada.

Alle 00:27:43 sopraggiunse una vecchia Panda scassata: la guidava Michele, un bidello di origine sarda di ritorno da una cena tra amici di caccia. Il gatto si rese conto che era troppo tardi quando era già troppo tardi. Individuò lo spazio tra le ruote anteriori e la carrozzeria e cercò di infilarsi in mezzo. La mossa riuscì ma rimase incastrato e Michele, che con la complicità di qualche bicchiere di troppo non si era accorto di nulla, si ritrovò con lo sterzo bloccato.

Alle 00:27:49 con un movimento istintivo verso destra liberò il volante spezzando a metà la colonna vertebrale del gatto, tuttavia non riuscì a riacquistare il controllo, la macchina girò su stessa e schiantò le sbarre fermandosi di traverso sulle rotaie.

Alle 00:27:59 dopo aver realizzato di essere ancora vivo, tutto intero e in buono stato (a parte una leggera forma di psoriasi, ma quella era ereditaria e con l’incidente non c’entrava), Michele ringraziò il padreterno e contemporaneamente maledisse quella dannata carretta. Non si rese conto dell’urina che gli aveva inzuppato i pantaloni e che si stava raccogliendo vicino ai pedali. Quando si accorse di dove si trovasse provò a riavviare il motore. Con ogni probabilità la macchina si era spaventata a tal punto che le era venuto un infarto. Girò più volte la chiave ma fu inutile.

Alle 00:28:48 una leggera vibrazione proveniente da sotto il sedile gli ricordò che se non si fosse levato subito di mezzo sarebbe morto. Continuò ad armeggiare, oramai in preda al panico, ma era come fare la rianimazione artificiale ad una statua di marmo. Il fischio del treno gli fece passare la voglia di fare un ultimo tentativo.

Alle 00:28:55 aprì la portiera talmente forte da scardinarla, si rotolò fuori e passò sotto la sbarra. Tra meno di un minuto ci sarà una strage, pensò. L’idea di ritornare in macchina per riavviarla o magari di spingerla in qualche modo fu un pensiero talmente ridicolo che il suo cervello non si degnò neppure di registrarlo. Quando vide i fari spuntare da dietro la curva capì che era meglio allontanarsi. Scappò via.

Alle 00:29:26 Michele sentì uno stridore agghiacciante, poi un rumore sordo dietro di sé, una specie di boato fatto di fuoco e lamiere e infine un soffio d’aria calda dalle sue spalle. Non vide nulla: continuò a correre. Si voltò solo quando il fiato cominciò a mancargli e la vista ad appannarsi.

Alle 00:29:26 il macchinista fu investito da un clangore infernale di vetri, metallo, scintille e benzina in fiamme. Si chiamava Antonio, aveva cinquantasei anni e due figli: entrambi andavano all’università e gli davano molta soddisfazione. Fu l’unica vittima: il treno era quasi vuoto. Non ebbe il tempo di formulare nessun pensiero.

La mattina dopo, Pasquale, come d’abitudine, comprò il quotidiano locale ed entrò nel solito bar. Si sedette e fece colazione sfogliando le pagine con aria assorta. Come era prevedibile un ampio servizio era dedicato alla sciagura che si era verificata poche ore prima. Pasquale guardò le foto e lesse gli articoli che ricostruivano l’accaduto. Senza accorgersene cominciò a serrare le labbra come faceva sempre quando qualcosa lo assorbiva.

Quando uscì dal bar era in preda ad una spiacevole, sottile sensazione di disagio. Quel vago ed impalpabile senso di colpa che alla fine sperimentiamo un po’ tutti quando veniamo a conoscenza di una notizia del genere. Un senso di colpa che è ovviamente irrazionale e che in quanto tale scompare dopo poco senza lasciare traccia.

Pasquale si accese la prima sigaretta della giornata: quello era un vizio che non aveva la minima intenzione di perdere. Aveva quasi settant’anni e stava benissimo e anche se gli fosse venuto qualcosa la sua vita l’aveva vissuta.

Respirò a fondo e con il fumo si dissolse anche quell’impressione immotivata.

In vita sua, in fondo, non aveva mai fatto male ad una mosca.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :