a vienna i musei sono in un quartiere che da solo potrà essere grande come una cittadina toscana, in questo quartiere schiele sta appeso a una parete grigiobianca come panna o canvas al leopold museum.
lassù, intendo al leopold, ogni stanza potrebbe contenere una palazzina. la gente non parla non sta in fila non guarda. piuttosto ascolta: ci sono guide elettroniche grosse come cellulari degli anni ottanta in tutte le lingue. rampe di toni ocra finestre acciaio pareti alte con lampade sottili rettangolari. tutto quello che non so di schiele è sbrodolato nel fallo dell'autoritratto di uomo, dipinto come una carruba una montagna infiacchita tra serpentelli o meglio il pelo di un corpo seduto. mi interessano gli occhi e i capezzoli come bottoni o pomelli di tisico, ma potrebbero essere anche i bulbi insoditi gli occhi gonfi di sangue o tempera.
appunto egon che ora ti offri mi interessi, soprattutto la pancetta intestinale bucata dalle anche e sui tuoi polpacci bruni che ti sei disegnato così netto così villoso o bronzeo sulle tue ginocchia mangiate e quasi tropicali, una il cancro, con una certa preveggenza artistica, una il capricorno e come in tempesta sconvolgente e regolare gli alisei, stai in contraddizione tragica con la panza e lo sguardo come chi ha budella piene di vermi o è costretto a ingoiare saliva. e quello che più mi spaventa è quello che hai intorno quello che ti monta e che ti tiene, e cioè la tela che è come dire il vuoto del tuo mondo.