La famiglia è la famiglia. El clan es el clan. Il silenzio e la fedeltà prima di tutto, anche quando è una vera e propria associazione a delinquere. Dove la salvezza di uno è la vita per tutti, dove il tradimento di uno è la morte per tutti.
Con El Clan Pablo Trapero torna a guardare la sua Argentina e affonda lo sguardo (più storico che sociale stavolta) in un brandello di carne ancora viva: i fantasmi della dittatura. Che è passata, ma non si dimentica. E realizza un thriller serrato, un crime movie allo stesso tempo asciutto e appassionante, un romanzo criminale argentino di una banda a conduzione familiare che finisce per “rapire” anche lo spettatore.
Trapero pone la macchina da presa al di là della barricata delle istituzioni, sul “fronte” dei cattivi, ma non sposa l’ideologia dei Puccio. Ne osserva e racconta le gesta scellerate seguendoli e scortandoli in strada come in casa, tramite piani sequenza che passo dopo passo, come in un accorto pedinamento, generano e accrescono una tensione narrativa destinata ad esplodere in un finale (anche registicamente) sconvolgente e inaspettato.
La chiave di El clan, però, è il cinema. Una storia vera sì, ma col linguaggio del cinema. Assassini veri raccontati come gangster hollywoodiani o all’italiana, ricorrendo più volte ad una certa e goduriosa esibizione del linguaggio del cinema, come nei molteplici montaggi alternati dove esecuzioni capitali o rapimenti si intervallano a scene di vita quotidiana. E condisce il tutto con una colonna sonora pop capitanata da Sunny Afternoon dei The Kinks, musiche che partono come da un’autoradio “ballerina” che s’accende puntualmente per “alleviare” gli orrori mostrati. Trasformando così la Storia in Cinema.
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