El efecto K. El montador de Stalin

Creato il 18 marzo 2013 da Ildormiglione @ildormiglione

El efecto K. El mondator de Stalin” è un favoloso e geniale gioco di luci ed ombre. Come una grande metafora del cinema mescola continuamente finzione e realtà davanti allo sguardo incantato dello spettatore, che diviene cavia ignara di un grande esperimento. Il titolo prende il nome dalla teoria elaborata dal regista sovietico Kuleshov, secondo cui l’efficacia del linguaggio cinematografico risiede principalmente nel montaggio, al punto che una medesima espressione produce effetti psicologici diversi nel pubblico se combinata con oggetti diversi. “Un’immagine isolata non ha nessun senso, ne assume uno in base all’immagine che la precede o la segue. Lo spettatore prova, infatti, sempre a stabilire un legame logico tra due inquadrature che si succedono, anche se non hanno necessariamente un legame diretto”.  Questo è il gioco a cui giochiamo noi spettatori durante tutto il film, dovunque sia possibile intessiamo in una trama di  logicità questa cascata incessante di immagini. La pellicola ruota intorno alla figura di Maxime Stransky, amico di infanzia del regista della Rivoluzione russa Sergei Eisenstein, che pur se di origini aristocratiche sposa la causa bolscevica. Mentre Eisenstein sottolinea l’importanza del dito del regista nella costruzione del film, per scuotere lo spettatore con la violenza delle immagini, sollevarlo dall’assorbimento passivo della storia e suscitargli nuove associazioni di idee, Stransky diviene più un documentarista perché ritiene che la realtà pura e semplice sia già degna di essere un film. Per la sua passione cinematografica ma soprattutto perché conosce più lingue e per le sue origini nobili, viene reclutato dal regime sovietico come spia estera: deve portare avanti la causa proletaria nei panni di Max Oppuls, un produttore-attore russo. Inizia di qui l’avventura di questo documentarista che attraversa l’intera storia del primo cinquantennio del Novecento, esercitando un ruolo importante nel Crack del ’29, durante la Guerra Civile Spagnola, nella scoperta della bomba atomica in Nord Africa, sorvolando il Polo Nord in fuga dal FBI. Una serie di imprese favolose che lo rendono l’eroe della patria sovietica. Il conto da pagare sarà altissimo: si perderà gli anni migliori del figlio russo, dovrà crearsi un’altra famiglia negli Stati Uniti, non vedrà per un lungo periodo il suo amico Eisenstein, e assisterà impotente alla deportazione di quest’ultimo e dei suoi genitori nel gulag di Kolyma. Questo grande impianto epico viene tutto narrato con una successione di immagini di taglio documentaristico a volte, assolutamente simboliche in altre. Così scene da home movie e immagini d’archivio storico si susseguono al gioco delle ombre e a disegni di città e allucinazioni che ardono devastati. Il film racconta il grande sogno delle utopie del Novecento, in particolare di quella sovietica, divenuta un ineluttabile fagocitante incubo, dove ognuno perde di vista la realtà. Nel teatro delle ombre quella di Stalin giganteggia col suo carisma su quella di Stransky, che va via crescendo in dimensioni man mano che aumentano le sue imprese come spia.  A differenza del suo amico, Stransky si sottomette al volere del dittatore, offuscato dall’ideologia quasi fino alla fine. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Stalin gli chiede di realizzare una pellicola educativa sul regime ed è qui che l’esperimento del film stesso viene in parte spiegato. Dinnanzi alla scelta di una narrazione epica delle gesta della dittatura e del sollevamento del popolo sovietico, con tanto di leggendaria spia all’estero, decide di svelare il grande inganno dell’utopia e il potere del cinema che ha saputo raccontare la storia secondo l’ottica dei vincitori, di Stalin in questo caso. Anche Stransky finirà in un gulag. Il film è “una pellicola costruita con frammenti di realtà, una strategia di elementi, discorsi, verità, verità che diventano falsità e falsità che possono diventare verità. Il cinema è una grande metafora della menzogna”, sottolinea il regista Valentí Figueres. Dal film emerge come i grandi dittatori del Novecento abbiamo argutamente intuito il potere del cinema nella loro propaganda, ma anche nella manipolazione dello spettatore, avviando dei veri e propri esperimenti sociali. Un po’ come accade a noi spettatori dopo la visione di El efecto K. Nei sottotitoli finali ci viene detto che nel 2011 sono state ritrovate le pellicole documentaristiche di Maxime Stransky. È la verità o è solo uno stratagemma tecnico per rendere veritiera la finzione? O peggio ancora è un effetto della obnubilazione della verità ad opera del regime sovietico? Il dubbio rimane, ma ora gli strumenti di verifica della verità sono più alla portata di noi masse. Vale la pena farsi trascinare dalla sinfonia di immagini, come in un vecchio film muto o in una grande fiaba, trasportati dalla voce narrante del protagonista, dalle musiche incalzanti e trasognanti, ma soprattutto dal dito sapiente del montatore.

Voto 10/10



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