Mentre abbozzavo queste righe, mi sono imbattuta in questo post di Panz proprio sul tema della decrescita, e anche nel suo precedente - bellissimo - sui confini, dove scrive: "... io di questi confini voglio nutrirmi. Nella loro ambiguità, nel loro strano viaggiare tutti insieme per ricordare, altezzosi, che siamo tutti un impasto di territori diversi, storie che si affastellano e non sono mai la stessa...".
Ovviamente è partito il cortocircuito, questi sono i temi su cui in famiglia si riflette e si litiga, anche. Che poi, paradossalmente, è stato M. a intraprendere il percorso di trasformazione più radicale. Il fatto è che lui si impunta nel "codificare" la questione, insiste nel valutarla soprattutto da un punto di vista economico e tende a diventare manicheo: c'è chi può permettersi questi discorsi fighetti e chi no. Quindi finisce sempre che ci incartiamo, con discussione viva e appassionante. Vabbè faccio la pasta, ne parliamo un'altra volta. La questione della decrescita è sempre intrecciata in maniera ingannevole ai luoghi. Ogni luogo ha motivi di fascino e, spesso contemporaneamente, ragioni intime di malessere. C'è chi decresce nel piccolo ambiente (direi che è la tendenza dominante), c'è chi ha bisogno dei grandi spazi urbani. Io sono una di quelle persone che sente la necessità dell'anonimato per essere libera, lo ribadisco ogni due righe. Anche Laura, che su questi temi è autorità indiscussa, sta valutando la scelta cittadina.
In realtà in tutta questa faccenda i luoghi non sono così determinanti, credo, sono solo una conseguenza. Si decresce da se stessi, prima di tutto. In questo percorso si cercano le situazioni che ci consentono la libertà di diventare quello che vogliamo essere (o di ritrovarci, secondo i punti di vista) e l'orizzonte assume una forma solitamente diversa da ciò che abbiamo già sperimentato. Decrescere è un paradosso: è fare passi indietro e contemporaneamente avanzare verso nuovi confini. La chiameremo "sintesi di Panz", perché quegli ultimi due post, uno accanto all'altro, esprimono bene il lavoro interiore di chi comincia ad apprezzare le infinite sfumature, ad amare le contraddizioni, a distinguere l'essenziale dal superfluo in piena soggettività e accettazione dei punti di vista altrui. Un lavoro di scavo, diverso per ognuno.
Lo ribadisco, io in un paesino non vivrei mai. Oppure dovrebbe essere molto ben collegato al resto del mondo, devo sempre avere la certezza della fuga, mi conosco.In questa lenta ripresa della vita di tutti i giorni, in questo caldo umido che sfianca, in questo ufficio ancora deserto, capisco che Milano è il mio mare, onde indistinte ed anonime mi cullano e mi trasportano. Vi ho trovato delle zattere e dei fari. Posso fuggire, scoprire nuovi mondi, tornare a casa prima di sera. Non c'è la luce di Sant Pol, certo, ma posso esercitare lo sguardo e vederne tanta di luce, ed è quello che cerco di fare ogni giorno, anche attraverso il non.blog. E non importa se a volte il mio mare è un po' agitato, va bene anche così.