Eleanor Cole – Episodio 10 – Romanzo a puntate di Alessandro Forlani

Creato il 16 giugno 2012 da Fant @fantasyitaliano

Eleanor rientrò nel baldacchino le braccia meccaniche con le seghe e il trapano, spezzò le catene. Farinelli barcollò sui gradini:
«… il sistema è operativo al sessantacinque percento… »
«Può correre?», Delfina ruggì. Lei lo accompagnò sottobraccio, il roboto esitò sui gradini della predella, oscillò per qualche metro, ritrovò l’equilibrio.
Ormai a pochi passi da loro, strisciato in un istante dalla parete all’asfalto, il chilopode succhiava gli Ammit vivi nelle fauci di cartilagine: paralizzati dal veleno degli aculei, gli indigeni si torcevano fra le spire del mostro, strabuzzavano, rantolavano terrorizzati.
Eleanor non riusciva a stornare da quell’orrore dell’universo remoto, lo odiava per il caos che l’abominio rappresentava. Gli occhi neri, fissi dell’insetto puntavano su di lei; protendeva i pungiglioni, le vibrisse irrequiete, scattò sulla miriade di zampe.
«Santo Ferrari se è veloce! Filiamocela!», Delfina arretrava dalla predella d’altare, Eleanor la trattenne, armò le due pistole:
«C’è pericolo, feriti, ci sono morti da vendicare. E quello non è la fauna di un mondo sano.»
«Ho ribrezzo. Non vorrà mica rischiare la pelle per queste scimmie bigotte?!»
Eleanor scaricò le sue pistole sul chilopode, i proiettili esplosivi forarono la chitina; spargevano frattaglie ma l’essere non si arrestava. Frugò nella tuta per un altro caricatore. L’insetto la sferzò con le antenne, la stese sul paranco fra amuleti ed ex voto.
Si erse sopra di lei per un terzo della sua lunghezza, scoprì gli anelli bianchi, mollicci del ventre pronto ad affondare i temibili pungiglioni.
Eleanor incespicava nelle reliquie-rottame, non riusciva ad alzarsi; le quindici lunghe zampe la serravano in una gabbia. Le secrezioni velenose giallastre le stillavano sulla tuta, sui capelli, sul volto: le prudevano, le bruciavano sulla pelle e aprivano nel goretex ampli squarci fumanti.
«Farinelli!», strillò. L’automa restava immobile dietro la coda del mostro, proseguiva la monotona notifica:
«… il sistema è operativo al sessantotto percento… »
«Gran figlio di puttana!»; Delfina, attenta a non colpirla, sparava a raffica sul carapace dell’essere: i proiettili non ottenevano che di spargere dell’altro schifo.
Stordita dal fetore d’obitorio che esalava dalle fauci del mostro, offuscata d’orrore, Eleanor si specchiava nei bulbi neri d’insetto che la fissavano senza appetito: c’era solo omicidio. Il chilopode sollevò gli aculei.
Esitò.
Agitò le vibrisse, la coda, gli anelli come distratto da un’interferenza, si attorcigliò su se stesso. Eleanor si rannicchiò fra gli amuleti di metallo, la prigione di zampe la chiudeva più stretta. L’insetto rizzò la testa e le antenne, si appiattì sul ciborio.
E lì immobile, inerme e confuso ticchettava e friniva.
Delfina affondò le mani nel fustone dell’offertorio, «sapevo di trovarne!», esultò: cavò da quel ciarpame un razzo e lo applicò sulla bocca del fucile, puntò il mirino laser fra le fauci mollicce.
Il razzo sibilò con una scia di fumo, la testa dell’insetto si liquefece con un boato.
L’addome repellente si afflosciò su se stesso con un crac di terrecotte spezzate: indigeni intorpiditi, ustionati dagli icori gastrici, precipitarono guaiolanti sullo zoccolo dell’altare.
Eleanor emerse dalla carcassa come sepolta sotto una frana di cartapecora: i resti del chilopode si spezzavano secchi, si disfacevano in cenere.
Lei udì di nuovo il ticchettio echeggiare nel matroneo desolato.
Le grate alle pareti più alte vibrarono, si accartocciarono, si aprirono su crepe buie.
Decine d’altri chilopodi sciamarono nella piazza.
Eleanor, ingoiato il ribrezzo, raccolse le sue pistole, le armò; Delfina caricò un altro razzo. Sbucati dalle pareti in un groviglio mostruoso, gli insetti rotolarono, si sparsero sul suolo, un’onda brulicante di creature più piccole.
«Ecco i cuccioli», grugnì l’esploratrice, «questi almeno sono grossi quanto noi», puntò la carabina nell’ammasso più fitto, sbirciò nel mirino, «ma che?!…».
Vomitò.
I mostri si avvicinarono, Eleanor li vide meglio.
Molte zampe degli orrendi centopiedi erano state sostituite con arti umani cuciti: gomiti e ginocchia rovesciati, slogati. Mani suturate a polpacci, piedi pinzati sui polsi, pestavano il cemento in una corsa d’insetto. Parti della schiena, fra le placche di chitina, erano scambiate con cofani di automobile, gli insetti spruzzavano cherosene e veleno. Le vibrisse s’irradiavano da fronti di bimbi umani, come imbalsamati in un eterno piagnisteo; gli addomi scivolavano su cuscinetti a rotelle.
A Eleanor cadde l’arma di mano: «non possono essere larve, non…»; quei volti belavano dolore. Lei sgomenta si strinse a Farinelli.
«… il sistema è operativo al settantuno percento… »
Delfina appoggiò il fucile, «stavolta», sputò, «si farà a modo mio»; staccò quattro incendiarie dal grappolo di bombe a mano, piroettò su se stessa, lanciò le granate:
«A terra con il roboto! Giù! State giù!»
Eleanor rovesciò Farinelli, lo coprì con il suo corpo, si avvolse di rottami. L’esploratrice si accucciò sotto il ciborio. Le vampe esplosero, dagli angoli della piazza, ad avvolgere gli insetti che le accerchiavano dai quattro lati; Delfina si rialzò, imbracciò la carabina: quelli che sgambettavano per scampare alle fiamme li spacciava con un razzo sulle teste d’infante. I chilopodi morivano con vagiti di bimbi.
Cessate le esplosioni, il crepitio degli incendi, la piazza era coperta di cenere. Di carcami carbonizzati.
Eleanor scese cauta dalla predella: toccò, poi sollevò, con le mani che le tremavano, la carcassa di qualcosa che non era un bambino umano, non era un centopiedi gigante e non era una macchina. E in parte lo era.
Delfina la fece a pezzi con il calcio del fucile:
«Non ditemi che avevano un briciolo di umanità, signora; che somigliavano troppo a mocciosi per non trattarli a granate.»
Eleanor trovò sotto i resti dei mostri i corpi di quattro indigeni risparmiati dal napalm. I cadaveri giacevano in posizione fetale, o supini con le braccia sul volto con le gole spalancate nel terrore della morte. Proni all’altare con le schiene segnate, trafitte dalle appendici dei chilopodi, avevano sui corpi le vesciche dei morsi.
«No», rispose fredda e feroce con la mente e lo stomaco che le bruciavano d’ira, «nessuna umanità.»
Farinelli le venne accanto, frugava fra le carcasse: negli occhi gli brillarono formule chimiche e colori:
«L’esplosivo ha agito su tessuti che definisco, per parte umana, in necrosi sospesa; e fossili del Carbonifero per parte di coleoptrata. Le forme e le fusioni delle parti meccaniche si collocano tra il XXIV e XXV secolo.»
«Il sistema è operativo al?…», lei gli sorrise.
«Ottantotto virgola nove per cento, signora.»
«Fammi capire bene, Wikipedia ambulante», s’interpose Delfina con le labbra arricciate, «stai dicendo che quelle cose erano morte e preistoriche? Ma…», scorse con ribrezzo le dita su una parete, imitava la corsa rapida e i pungiglioni del centopiedi.
Eleanor vide gli Ammit sopravvissuti che avanzarono dal colonnato dove avevano trovato scampo. Gli anziani Capo-Scavo le tendevano la mano:
«Avete fatto una cosa grande per noi, signora: meritate riconoscenza. E di conoscere certi segreti di questo mondo.»


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