Eleanor calciò la panca contro gli indigeni che caricavano.
«Senza ucciderne nessuno, vero?», Delfina si rassegnò. Saltò sui tavolacci capovolti, impugnò la carabina per la canna, colpì con il calcio sulle facce degli Ammit.
Farinelli picchiò col lanciarazzi sulle schiene e sulle teste nella calca, schiantò gli aggressori storditi sul pavimento. Altri ne accorsero con le mazze e catene. Eleanor sparò tre colpi in aria sulle teste della folla inferocita, gli scoppi bastarono a arrestare gli animosi, gli indigeni esitarono, tornarono all’assalto.
Lei corresse il tiro alle gambe, inghiottì: gli Ammit caddero con le rotule sfracellate.
Delfina fece scattare la baionetta, girò l’interruttore sulla bascula del fucile: la lama si arroventò. Lei impugnò la carabina come picca e la affondò nella coscia di un avversario, che cadde azzoppato con la tuta fumante:
«Ragionate, finalmente.»
«Limitatevi a ferirli, siamo qui per salvarli.»
Gli schiamazzi di altri indigeni, il tinnio di ferraglia, i clic d’armi automatiche che mettevano i colpi in canna le sorprese alle spalle da un altro vicolo del labirinto.
Eleanor si voltò. Un Ammit le puntò un obsoleta machine-pistole, lei lo fiaccò con un calcio ai testicoli, raccolse la mitragliatrice da terra e sventagliò contro l’imbocco del vicolo. Alzò polvere e schegge, tranciò tende e lamiere; gli indigeni si inchiodarono pancia a terra, al riparo.
Altri si calarono dalle gabbie di scale, li copriva un tiratore con un moschetto da caccia: esplose una cartuccia sulla corazza di Farinelli, i pallettoni rimbalzarono innocui.
Eleanor scaricò l’arma automatica sui sostegni arrugginiti dei gradini del tiratore: la scala stridette, si torse e spezzò; travolse gli altri Ammit che scendevano nella mischia.
Delfina mulinava la baionetta in un cerchio incandescente tutt’attorno al suo tavolo, la lama tranciava le impugnature delle piccozze, bruciava carne ed abiti di chi provava a saltarle addosso. All’istante riprendeva il grilletto, disarmava, coi proiettili esplosivi, chi levava fra la folla qualche specie di fucile. Farinelli s’inchiodava con le suole sul piancito, premeva con le spalle sulle panche rovesciate e conteneva gli scalmanati che spingevano dall’altra parte.
Eleanor abbatté l’ormai esausta mitragliatrice contro la fronte di un aggressore: il sangue lo accecò. Lei risfoderò le due pistole, una la agguantò come un martello, alla canna: salì in piedi sulla fragile barricata a picchiare, con il pomolo, sulle teste degli avversari. I tenaci li gambizzava. Ma d’ogni lato si volgeva a combattere sbucavano altri indigeni, scavalcavano i primi; all’abbaiare dei Capo-Scavo rabbiosi si facevano sotto coi mazzuoli e gli shotgun:
«Non possiamo resistere», gemette a Delfina.
L’esploratrice le rispose con uno sputo, con lo stivale toccò la fronte di Farinelli chino a testa bassa sotto tavole e folla:
«Lancia una granata! Ora, a casaccio!»
«Signora, lo avete visto: non sono pratico; esploderebbe…»
«…tutt’altra parte rispetto a dove hai mirato! Di sicuro non se lo aspettano: questo ci serve!»
Eleanor annuì, il robot armò l’ordigno, si spostò dalla barricata che cedette all’assalto. Decine di Ammit rovesciarono a terra feriti e immobilizzati dalle tavole sfasciate, lei scazzottò con i pochi ancora in piedi.
Farinelli sparò.
Il razzo ululò fra la folla stordita, che bruciata dal proietto, dalla scia di fumo bianco, si accucciava ventre a terra con la testa fra le mani. Gli Ammit nel panico gettarono le armi, gattonarono e strisciarono ai ripari dall’ordigno letale e erratico che rimbalzava sulle lamiere. La granata schizzò su una tettoia, gli indigeni si raccolsero al lato opposto del patio: subito il proietto ripartì con un fischio contro la pensilina sotto alla quale si nascondevano. Inebetiti, e intrappolati dal loro numero nel cortile, gli Ammit si aprirono spalle ai muri, in un abbraccio impazzito, al missile che sibilava contro di loro.
Delfina saltò giù dal tavolaccio, rincorse la granata:
«Seguitemi! Di là!»
Eleanor sbigottì, le andò dietro senza pensare; Farinelli pigolava mortificato della sua incapacità nell’usare quell’arma.
«Andatevene! Via!», ruggiva l’esploratrice; sparava colpi in aria, mulinava la baionetta, il razzo le alzava innanzi la sabbia.
Incalzati dagli spari, le grida e il terrore, Eleanor vide gli indigeni quasi dissolversi di fronte a loro: si arrampicavano sulle scalette insicure, si gettavano carponi dietro le tende e saracinesche, svoltavano nei chiassuoli, scendevano nei tombini; ovunque fosse un buco per scamparla.
Il missile, urtata la pensilina, s’incurvò in una parabola ascendente e ricadde ed esplose sulla tettoia del lato opposto.
Eleanor si strinse a Farinelli, si gettarono a terra: il robot la coprì dalle schegge; lei scorse nel fumo Delfina salva dai detriti sotto il piano di un banco.
Le fischiavano le orecchie: e lo stesso intuì che l’esploratrice, già in piedi di là dal tavolo scaraventato, le strillava di seguirla verso il cratere dell’esplosione.
Farinelli la alzò e la prese in braccio. Lei, con la vista appannata, scorse dietro a loro, oltre le spalle del robot, i Capo-Scavo che trattenevano i loro uomini e li armavano daccapo e organizzavano l’inseguimento. Si voltò, per avvertire Delfina.
L’altra correva per un canale essiccato fra cisterne gigantesche e annerite, che sfociava dall’insediamento, un chilometro più in là, fra le dune desolate del selvatico deserto.
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