Elegie zoldane. Inedito di Paolo Fichera

Creato il 11 settembre 2011 da Vivianascarinci

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Elegie zoldane

di Paolo Fichera

siamo venuti per un compito che non
ci appartiene e che sfoghiamo con mani
di risposta, all’inconoscibile richiamo
basta che l’ombra fuori si dichiari

foto di Karin Pilipp

un bambino corre tra le sepolture
prima che il tempo muoia nell’onda

*

fruttifica la bolgia
apiario di sirene
fortifica il battito, sente dolore
la roccia, provano dolore le pietre
redente dall’acqua, vibrano
le ossa veementi, solidifica
la lotta che l’erbario
registra in scarti di felci, ironiche
e secche, scioglie la mano il sole
e monco è il gesto che ingloba
la terra il muschio
nell’albero tronco che un giardino
roccioso protegge oltre il lago
eseguendosi tutto in un battito che scrolla
la ruggine nella fiamma di un fuoco
immaginato dal tempo

*

questa origine sottratta riscatta
la mano che vuole morto il respiro
l’intera bellezza scolpisce il gesto
deperisce e notte la figura
come l’occhio attraversa la vista
il culto intride e scisma e rito
l’ideogramma apparso prima nella notte

*

era questa ferocia unica
che non potevi non dire, questo grido
tarlato, la polvere inespressa nella gola
fino a fare del bosco la culla, prologo
dissolto che perpetua i corpi amanti
lasciati ai vagiti del legno tra le unghie
di questa soffitta dove la vita è ruggine
che perpetua l’età del ferro nella volontà
vegetale della percezione, dell’ape, del varco
che non crea, non chiama, ma custodisce
ogni atomo nella linea circolare
del segno morso ora in quel tempo

*

prima di essere tu questa verità custodita
la morte espone così tanta bellezza
prima del tempo era la foga idolatra
che ti chiama a Occidente

*

la goccia del padre mi rasserena
e non mi dà scampo, questo assoluto
che si rinnova nel rumore di una
fenditura incrinata da un fiume
devastato da alberi fissi

*

l’occhio dentro travalica ciò che vede
nido di orgasmi, organismo di fissazioni
per penetrarsi gemmando
questi segni scritti con i denti
in memoria e in nome
di chi ha perdonato l’orrore
questo sangue senza respiro,
questo tracimare del figlio
in un angolo vegetale
tra una radice esposta nutrita dai morti.
quale verità ti chiede in soglia?
per questa impronta ho vegliato la bestia
nel varco concesso alla distanza
disarticolati gli alberi espongono il lavorio
dell’occhio e questa morte così presente
non esiste, le mani accumulano la distanza,
per anni, per la corda d’una dissoluzione
che lega perdendosi in un covo d’acqua

*

quando rinunci all’attesa e gemi
oltre i cancelli l’idolatria è nel legno
la tua morsa, quando la polvere suscita le
linee della mano, come reliquiari si
tendono ramificando la sostanza oltre il segno
fino al bosco che resta e che tu chiami
morendo, ancora, resta e trama sapendo
di te, svanendo, e in tuo figlio la
bocca, quella cartilagine sottile che fa del verso
un coro che il sangue scrolla e non c’è
preghiera se non questa doglia,
la fissità liquida di una vena

*

come cosa perduta resta
irrimediabile opera schiusa
resti perché attraversi
con legami di voci
s’assottiglia la morsa che morde
l’attesa, l’immemoriale culla che travalica e ferma
nel polso ferma i rami dei morti senza contorni
vedi la biscia d’acqua essiccata sulla lamiera
il trofeo innocente delle mani sapienti e giovani
a morire sulla pietra le viscere, non hanno specie

*

non resti tra le tue parole, non puoi,
la vastità dell’incendio brucia le mani
di chi ha dato specchi che il colore emana
la deriva della curva che l’attimo schianta
dopo l’apice a prima vista dato

*

siamo venuti per un compito che non
ci appartiene e che sfoghiamo con mani
di risposta, all’inconoscibile richiamo
basta che l’ombra fuori si dichiari

*

una verità non si chiude nella vita
scende l’acqua che scende
mentre intarsi a torso nudo il tuo legno
furente se può la forma del tempo
dare abbazie al popolo del sangue
mentre una nuvola sale e il buio giace
avere quel battito
privarsi della sete
mentre scende l’acqua che scende
altra acqua, che scende, annodare
tra la sete a invadere la forma
con crudeltà per le mani oltre
quel battito scende e acqua
nel teatro della forma non
richiama la voce le uova
macchiate di sangue

*

a chi ha vissuto e dato specchio
alla notte del legno bianco, rifluire
la sua linfa era il sepolcro
trascinato nell’oasi di una risacca
purché tacere fosse cosa imparata
dai rami tesi, come linfa tirata
da albero a notte da dita
che la metamorfosi spiana e mi attraversi

*

nell’inverno viene adorando la neve
quando è troppo ripida la discesa
lascia imperfetta la goccia
resta fino a te e poi passa
il fogliame, questa sequenza sbranata
d’adorazioni, dove chi cade erge
nuove rovine suscitate dagli occhi
per cadere ancora nella roccia di un volto
che non ha sangue ma chiama le mani
a farsi solide fornaci ed espande
te nel quando oltre ogni vastità imparata
ansimando. la tua roccia è là.

*

ogni dualità ha il grembo sterile
figurare l’anima, consolidare la pena
purché sia vera l’ombra sia folle la pietra
mossa a diga nel fiume oltre l’argine
purché il molteplice sia il ruggito
della forma nell’ombra

*

dillo lì dove soffia
la parola che lascia
la terra, l’emanazione limpida
che ti estingue al risveglio in questo



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