Claudia si alzò alle 5.00, disfatta dall’onirico che continuava ad agire nonostante avesse aperto gli occhi da tempo. Alle 3 e 30 era sobbalzata nel letto, avevo chiuso la sveglia, che puntava per abitudine alle 7.00.
Alle ore 8 in punto doveva trovarsi a scuola , attraversare il lunghi corridoi che la conducevano in classe dove, dopo l’appello di rito, si tuffava con il consueto entusiasmo dentro quel mondo ellenico, fonte di vita, ricettacolo dei valori più alti dell’umanità tutta. La cultura classica – pensava – quel tesoro che nessuno mai potrà portarmi via. La sua vita era cambiata da tempo, da quando, separatasi dal marito, cui era tiepidamente affezionata, si era trasferita a casa della madre Maria, affetta da Alzheimer.
La sognava sempre quella madre, anche prima che si ammalasse, ma ora dominava incontrastata il palcoscenico dei suoi sogni: con lo sguardo assente, inebetito, ripeteva come una cantilena: ”Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” e si cullava riversa sulla sedia a rotelle, senza più alzare il viso al cielo. La malattia era progressiva e non dava scampo; nel giro di cinque anni era visibilmente regredita ad una condizione infantile; dimensione relazionale azzerata, cellule cerebrali morte, se ne stava in disparte chiusa nel suo non-mondo. Claudia la baciava sulla fonte madida di sudore, innamorata di quella madre, un tempo pilastro di una famiglia matriarcale, con un padre debole e assente, assorbito nel lavoro di funzionario di banca. Lei, la madre, era stata illustre insegnante di storia, partigiana, funambola della parola, quando arrivava a spiegare il Nazifascismo, con gli occhi lucidi diceva: “ Cari studenti, siamo arrivato in quel punto cruciale, in cui l’uomo perse il senno”, mentre in pectore ricordava suo padre, ebreo deportato ad Auschiwtz e ovviamente mai più ritornato. Allora le parole si facevano scarne, un nodo alla gola la stringeva, mentre i ragazzi la guardavano in silenzio per rispetto del suo dolore. Dolore ora chiuso nella mente disfatta; lo cercava quel padre negli angoli della casa, dentro le scatole e i barattoli di marmellata, lo vedeva nei luoghi più strani e lo chiamava con flebile voce: ”Padre, padre!”
Claudia fingeva che fosse tornato e metteva un posto a tavola anche per lui, ma un velo di malinconia si intravedeva nello sguardo ormai spento: Maria percepiva l’assenza, benché non fosse in grado di verbalizzarla. La figlia la stringeva a sé e lo sapeva: l’aveva persa da tempo; da quanto era insorta la malattia, dieci anni prima, la madre era morta; era un vegetale senza riflessi né memoria.
Così la sognava la notte, la vedeva vivida come se fosse davvero dentro la sua mente, anche nel sogno l’accarezzava, la stringeva perché non andasse mai via. La madre si gettava nel mare biancastro, nel mezzo di una tempesta, affogava lasciandosi trasportare dall’onda malefica, ma lei si tuffava nel mare e con la potenza di una dea la richiamava in vita, la riportava sulla risacca. Poi la madre cadeva dal balcone del quinto piano della sua casa; periva col corpo in frantumi, ma lei, sempre lei, si gettava , la rianimava, la faceva vivere ancora e poi ancora per sempre, sempre!
Era in analisi Claudia da anni: non riusciva ad elaborare il lutto del distacco emotivo dalla madre, che era il suo mondo interiore, insieme a quel greco che anche la madre gli aveva iniettato nelle vene fin da fanciulla; da quando la madre era mentalmente morta, quell’attaccamento si era fatto, se possibile, più intenso: era tutt’uno con lei, non la lasciava mai sola, tranne la mattina per insegnare in quella scuola nella quale era a disagio con colleghi e presidi, per poi ritrovare la pace in classe, dove il sogno dell’equilibrio e della compostezza greca riprendeva la consueta forma classica.
Si aggirava tra i banchi, con sguardo acuto recitava a memoria i versi di Sofocle e, quando arrivava a dire le parole di Tiresia ad Edipo: “In un sol giorno ti rivelerai” cresceva la consapevolezza che i Greci davvero sono i padroni della psiche del mondo. Lei si era rivelata a se stessa a quindici anni, quando attraverso il sogno gli si era rivelato tutto l’amore per quella madre, allora giovane e bella, e non aveva più smesso. Inutili i tentativi analitici di staccarla da quel sogno di amore senza tempo; per esso aveva sacrificato la sua vita, aveva deciso di non partorire, aveva mandato in frantumi il matrimonio. Non avrebbe mai dovuto sposarsi, ma la convenzione aveva avuto la meglio. Ora che il marito era lontano, in altra città, l’aria di Roma, caput mundi, era diventata respirabile e, camminando fino ad arrivare alla scuola nel quartiere di Monteverde, ricordava tutti gli illustri che qui sono vissuti, in primis Pierpaolo Pasolini, l’amore intellettuale di sua madre, l’uomo che ha vinto con le parole l’orrido abisso della morte. Nondimeno Gianni Rodari e le sue storie, di cui si era nutrita la sua fanciullezza, e li sentiva nelle fibre più intime, nel cervello fin dentro le viscere. Poi a scuola, al cospetto dei colleghi e dell’odioso dirigente mafioso, se ne stava in disparte per non colludere con il potere: ci teneva a rimanere fedele agli alti ideali della sua famiglia partigiana. Mentre andava in classe solerte,il ricordo di Pier Paolo le faceva compagnia: la morte violenta e la forza della parola poetica, e vedeva in Monteverde il suo sogno di valente insegnante, amata dai suoi studenti. Solo gli studenti la tenevano lontana dal dolore per la madre, in cima alle sue priorità affettive; mentre spiegava e citava a memoria, gli animi dei giovani si risvegliavano dal torpore, in cui cadevano nelle ore degli altri colleghi, e con sguardi attenti e consapevoli la guardavano negli occhi accesi dal furore poetico, e lei lo sapeva: gli alunni l’amavano e la consideravano il tafano della scuola, quella che con pungolo dell’intelletto metteva in crisi il sapere scolastico. Novella Socrate, aborriva gli dei falsi e bugiardi del potere imperante ed era entrata in collisione col dirigente, messo in quel posto ad esercitare l’infame potere per volontà della Mafia, realtà presente in tutta la penisola italiana. Lo evitava quel dirigente,sapeva che non aveva niente di intrinseco, ma che era pura forma vuota, corpo senz’anima.
I colleghi collusi la disdegnavano, ma lei se ne andava eretta, forte della sua integrità morale; una sola cosa la piegava: il dolore per quella madre che aveva lasciato a letto con la badante, bravissima polacca, dolce e ormai parte della famiglia. Al suono della campanella, di fretta verso casa al capezzale del suo amore assoluto, la cui vita la teneva lontana dalla morte interiore.
Intanto aveva lasciato l’analisi, dicendosi: “L’amo, sì l’amo, perché dovrei rinunciare al mio sogno? Ogni essere umano ne ha diritto!”. Non elaborò il lutto e attendeva quotidianamente agli studi e alla cura del suo unico amore, che erano la medesima cosa perché quel greco, in cui riponeva tutta se stessa, glielo aveva insegnato la madre insieme all’amore per il bello composto , equilibrato, essenziale, quello vero, schietto, puro, ab-solutus, quello che non si fregia di orpelli retorici, ma che punta dritto al cuore dell’uomo. Così erano le sue parole, alate come le frecce degli eroi di Omero, la sua postura nobile ed eretta, il suo tono di voce caldo e rassicurante, una dea scesa in terra a mostrare il miracolo del sapere. Un mito per gli studenti e gli amici, un tafano fastidioso e invidiato per i colleghi e il dirigente, un cuore d’oro per quella madre, che pur non riconoscendola, avvertiva la sua presenza e ogni tanto ebetamente le sorrideva. Claudia, un tempo l’orgoglio della famiglia, della madre e del debole padre, consapevoli di avere un tesoro in casa, per cui ringraziavano il Signore. Ma il tempo è il tempo, tempo tiranno che tutto involve e trascina e venne quel giorno: quel giorno amaro e crudele, infame sterminatore di affetti. Maria fu trovata al risveglio nel suo letto con viso piccolissimo e il naso affilato, con la bocca chiusa dal dolore, il corpo freddo e il battito assente. Se ne era andata in silenzio nella notte del 7 febbraio 2010, lasciando Claudia a pezzi con acuto dolore.
Inconsolabile figlia, senza più radici, si aggirava per le strade di Roma senza anima, inetta a vivere senza il suo faro, quel faro, che, pure spento da tempo, le illuminava la via della vita. Continuò ovviamente ad esercitare la professione di insegnante e solo in classe ritrovava una forma e, quando recitava Seneca e il suo “vivere satis et non longe”, capiva che la madre aveva vissuto abbastanza se le aveva passato il testimone del sapere e dei sentimenti eterni, che soli non muoiono sotto l’ascia del tempo. Così trovava sollievo, e davanti gli occhi le scorrevano vivide le immagini di quella madre, baluardo della storia e della grecità, donna di nobili virtù incarnate con stoico coraggio. Anche nella sua malattia era stata audace, capace di sopportare, quando ancora capiva, mai violenta, ma sempre dolce e dimessa pronta ad accogliere la volontà superiore. Poi se ne era andata in un’altra dimensione, e chi sa mai come stesse, se pensasse e cosa pensasse? Certo non aveva dimenticato suo padre, ma priva di vita l’attendeva tornare nel nido disfatto dal dolore dell’assenza.
Il tempo, grande scultore, dipinse sul viso di Claudia il dolore contratto; ci vollero anni per superarlo in qualche misura, ma mai scomparve del tutto. Aveva cinquanta anni suonati, quando si vide recapitare su di un ambulanza dall’ospedale civile, reparto psichiatria, una vecchietta che si sbracciava delirando e ripetendo senza soluzione di continuità nomi in tedesco. La vecchietta era innocua e l’ospedale la restituiva alla sua famiglia dopo essere stata ricoverata per decine di anni. Sopravvissuta ad Auschiwtz, ebrea, sorella della madre, veniva accolta nella casa di Claudia, felice che la catena continuasse e che potesse riversare su di lei tutto l’amore di figlia. Gli anni a seguire furono durissimi, la zia si aggirava per il quartiere Monteverde senza lena, non riusciva a stare ferma, troppo cocente il ricordo delle violenze subite, si dimenava come un’ossessa, ma era assai buona, ripeteva a gran voce i nomi dei suoi carnefici e raccontava come era sfuggita alla morte. Come fece mai si seppe chiaramente, i contorni della cronaca era confusi e tutto si accavallava nella sua mente turbata. Pareva però di capire che tale era la sua bellezza che nel campo veniva chiamata ” Elena di Troia”, ma non era la causa della guerra, bensì l’amante coatta di un ufficiale nazista che se ne innamorò come Achille amò la sua Briseide, sottraendola al suo destino di morte. Portava i segni visibili della violenza subita, ma rimanevano tratti dell’antico splendore, nei fianchi ancora disegnati, nell’alta statura e negli occhi verdi e profondi come il mare in tempesta. Un reticolato di rughe tradivano la sofferenza stratificata, rughe che si distendevano un po’ quando Claudia l’abbracciava con affetto di figlia.
I ragazzi, all’uscita dalla scuola, l’andavano a trovare, mentre si sbracciava camminando su e giù per il parco e lei raccontava, nervosamente, confusamente raccontava, mescolando il ricordo degli orrori nazisti con il suo sogno di fanciulla che avrebbe voluto frequentare il liceo classico per poi studiare all’Università e convolare a giuste notte con un uomo che amasse ricambiata. Il racconto era interrotto, sincopato, sofferente,ma il viso non tradiva emozioni, come una pazza ricordava in modo meccanico, riesumava bricioli di una memoria frantumata, spappolata dalla storia vissuta e dai farmaci somministrati.
Una vita a brandelli tra le braccia amorose di Claudia che continuava a perpetuare il suo sogno di figlia, in continuazione ideale e affettiva con mamma Maria: gli stessi occhi, la stessa altezza, la stessa bellezza rivedeva in lei di sua madre, morta a 70 anni, senza rughe visibili, quasi giovane nel volto, nonostante la fissità inquietante dello sguardo perso nel vuoto. In quel vuoto però ella si rispecchiava trovandovi la ragione ultima della sua vita, ora incarnata dal verde tempestoso degli occhi di “Elena di Troia”.