Elephant Song (2014)

Creato il 21 gennaio 2016 da Af68 @AntonioFalcone1

Presentato al Toronto Film Festival nel 2014, Elephant Song, scritto da Nicolas Billion adattando la sua omonima opera teatrale e diretto da Charles Binamé, si palesa alla visione come un intrigante thriller psicologico capace di coinvolgere in particolare per la raffinata messa in scena offerta da una regia in costante equilibrio fra l’assecondare e il movimentare la suddetta derivazione teatrale, sfruttando a tale ultimo riguardo sia le valide prestazioni attoriali dell’intero cast, sia un’alternanza di diversi piani temporali che vanno ad intersecarsi nel corso della narrazione andando a comporre le tessere di un complesso mosaico. La vicenda, infatti, prende piede nel 1947 a Santa Clara, Cuba, dove sta per svolgersi una rappresentazione che vede protagonista la celebre cantante lirica Florencia De Costa (Gianna Corbisiero).
Dopo lo spettacolo, fra quanti circondano la donna rivolgendole complimenti, vediamo anche un bambino, suo figlio, che aveva seguito l’esibizione dietro le quinte, subitamente allontanato dalla madre, la quale non fatica ad esprimere un certo disagio. Da un comprensibile gesto di stizza del fanciullo, intento a strappare violentemente i petali da alcune rose, una suggestiva inquadratura ci conduce all’interno di una struttura psichiatrica canadese: sono passati vent’anni e quel bambino è ora un ragazzo (Xavier Dolan), degente afflitto da turbe comportamentali.

Xavier Dolan e Bruce Greenwood

Michael, questo il suo nome, viene convocato dal direttore del plesso sanitario, Dr. Greene (Bruce Greenwood), il quale spera con l’aiuto del giovane di venire a capo della scomparsa del collega Lawrence (Colm Feore), visto che è in terapia presso quest’ultimo. Nonostante la capo infermiera Susan Peterson (Catherine Keener) metta in guardia Greene, cui è legata da un passato in comune, sull’arguzia manipolativa di Michael, l’uomo non tarderà a cadere nella sottile trappola ordita dal ragazzo, un quid pro quo che sfrutterà ben presto per raggiungere il suo scopo …. Elephant Song propone agli spettatori, man mano che si sviluppa l’iter narrativo, una soppesata gradualità nell’attirarne l’attenzione partecipativa, offrendo il quadro di una realtà dalle diverse sfaccettature, al cui interno il confine fra ciò che è vero e ciò che è falso, tra normalità e devianza, appare quanto mai labile, soggetto al dominio di svariati flussi mentali.
Quest’ultimi troveranno la loro variabile al’interno di un campo di battaglia dove andranno a scontrarsi oggettività e soggettività, fino a giungere all’elaborazione liberatoria di un opprimente dolore o alla tormentata espiazione di una colpa della quale si è lucidamente coscienti. La sensazione dominante, nonostante i citati e quasi continui “sbalzi” fra passato e presente, è che tutto avvenga “qui e ora”, anche in virtù di un montaggio abbastanza fluido (Dominique Fortin).

La ricerca da parte del regista di una comunque ineccepibile cura formale, a tratti compiaciuta, impedisce però al film, almeno a mio avviso, di acquisire un afflato definitivamente coinvolgente, pur nell’indubbio merito di far sì che, anche a giorni dalla visione, ci si interroghi sulle sue possibili interpretazioni, al di là della pur mirabile resa visiva. E’ un limite comunque mitigato dai bei dialoghi e dalle ottime interpretazioni, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo.
Bruce Greenwood caratterizza il suo personaggio con sottigliezza e misura, ogni gesto e sguardo rende evidente il suo disagio nel rapportarsi con quanti, nel lavoro o nella vita familiare, si trovino ad interagire con lui:l’ex consorte Susan delineata da Catherine Keener risaltandone il fare deciso e un dolore a stento trattenuto, l’attuale compagna, l’apprensiva Olivia (Carrie-Anne Moss) ed infine il “paziente per caso” Michael, reso con palpabile veridicità da Dolan.
Il suo fare dolente nel portare a galla disagi esistenziali e traumi subiti si alterna ad un’ estrema e conturbante lucidità nel rendere compimento ad un personale percorso allo stesso tempo salvifico e punitivo, tanto nei confronti di se stesso che di quanti non hanno saputo comprendere i suoi turbamenti, magari confondendo amore e compassione. In definitiva un film interessante, mai banale, cui avrebbe giovato un maggiore ed autentico slancio autoriale al di là della mera resa visiva e del pieno rispetto delle prestazioni attoriali.

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Fondazione Cineteca Italiana, in collaborazione con il Festival MIX Milano, presenta in questi giorni nel capoluogo lombardo, presso Spazio Oberdan, l’anteprima italiana del film: un click col mouse qui e potrete venire a conoscenza della programmazione, che proseguirà fino al 24 gennaio.


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