Nei giorni scorsi, dopo le elezioni di midterm del 4 novembre, i giornali statunitensi, ma anche italiani, si sono riempiti di commenti del tipo: con la travolgente vittoria repubblicano che, non solo ha confermato il dominio della Camera bassa, ma ha anche conquistato il Senato, Barack Obama è un presidente dimezzato, una “lame duck”, una anatra zoppa.
In condizioni simili, negli ultimi due anni di presidenza, Obama non potrebbe fare altro che enunciare un programma fatto solo di buone intenzioni, ma impossibili da realizzare, bloccate dal controllo assoluto del partito conservatore dei due rami del Congresso.
Il sogno di cambiamento e speranza incarnato dallo slogan “Yes We Can” sarebbe ormai solo un ricordo, stroncato dall’inevitabile scontro con il mondo reale.
Le “campane a morto” per la presidenza di Barack Obama sembrano però eccessive e ingiustificate.
In primo luogo perché, malgrado tutto, è impossibile cancellare il primato della riforma sanitaria del 2010 con cui il primo inquilino afro americano della Casa Bianca è riuscito là dove molti suoi predecessori avevano fallito clamorosamente e cioè estendere a milioni di americani la copertura federale contro le malattie.
Anche se fosse riuscito a conseguire solo un simile risultato e poi avesse deciso di dimettersi, Obama avrebbe già guadagnato un posto di assoluto rilievo nella storia della presidenza americana.
In secondo luogo, l’enorme clamore con cui i media hanno accolto la sconfitta elettorale democratica, che ha permesso al Gop di riconquistare anche il controllo del Senato, non sembra appropriato.
Succede spesso, l’ultima volta nel 2006, quando alla Casa Bianca c’era George W. Bush, e la domanda delle elezioni americane di midterm non è se il partito che esprime il presidente uscirà sconfitto dalle urne, ma quanti seggi perderà.
Non solo, tutte le votazioni a metà del mandato presidenziale registrano tassi di partecipazione bassissimi (questa volta si è stabilito un nuovo record negativo con un misero 36%) e ad essere lontani dalle urne sono proprio quelle frange di elettorato che hanno rappresentato la principale base elettorale del doppio successo di Obama nel 2008 e nel 2012: i giovani e le minoranze nere.
Non va poi dimenticato che, quest’anno, si è votato per distretti elettorali, la cui localizzazione territoriale, era stata ampiamente rimaneggiata dai governatori repubblicani al potere tramite una pratica legale, ma scarsamente egualitaria nota come “gerrymandering”.
In pratica, negli ultimi anni, i governatori conservatori hanno ridisegnato i collegi elettorali in modo da favorire quelle zone del paese in cui erano maggioritari gli elettori moderati.
E’ come se nelle cd. “regioni rosse” italiane, Toscana, Umbria, Emilia e Liguria, i presidenti del Pd modificassero i collegi per favorire una vittoria ancora più netta del loro partito.
Infine, nel determinare la sconfitta del partito del presidente non va trascurato anche il continuo ostruzionismo opposto dai repubblicani a qualsiasi proposta presentata da Obama.
Basti ricordare che Mitch McConnell, il nuovo leader della maggioranza al Senato, ha sempre dichiarato di voler fare di Obama un “one term president”, un presidente da un solo mandato, evidenziando così la sua irriducibile volontà di contrastarlo in ogni modo.
Dal 2010, l’anno i cui il Gop ha conquistato la maggioranza alla Camera, Obama ha dovuto combattere una vera e propria guerra all’arma bianca per tentare di realizzare il suo programma legislativo e spesso non ci è riuscito.
La continua battaglia tra la Casa Bianca e i repubblicani ha comportato conseguenze molto gravi, fino alla recente interruzione dell’attività del governo federale.
Ne è derivata una immagine della politica fatta di inconcludenza e livore che ha creato danni enormi ad Obama, ma anche al Congresso che, nell’opinione pubblica, è considerato ancora meno affidabile dello stesso presidente.
Un colpo all’immagine che spiega la reazione degli elettori contro Obama e che può, in parte, spiegare come sia stato possibile che i democratici abbiano perso malgrado la costante discesa della disoccupazione (al momento a al livello fisiologico del 5,8%) e la robusta crescita del Pil statunitense.
Infine, non tutto il male viene per nuocere: la batosta subita tre giorni fa dal partito di Roosevelt, Kennedy e Clinton potrebbe essere foriera di nuovi successi futuri.
Infatti, con il Congresso completamente in mano al Gop, quest’ultimo non può più permettersi di fare solo opposizione, dovrà governare e questo lo costringerà a sporcarsi le mani con l’attività quotidiana, favorendo le ambizioni presidenziali dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton.
Se infatti questa si candidasse alle elezioni del 2016, potrebbe impostare una campagna tutta incentrata sulle critiche alle scelte politiche dei repubblicani e non solo basata sulla presa di distanza dall’eredità di Barack Obama.
Una strada meno scoscesa di quella che avrebbe dovuto intraprendere in caso di mantenimento del controllo del Senato ad opera dei democratici.