Nato e Afghanistan
Un accordo vincolante per l’Alleanza atlantica poiché alla fine dell’anno scadrà il mandato delle Nazioni Unite per la presenza di truppe straniere su suolo afghano; presenza che, dal 2015, non sarà superiore alle 12 mila unità, un numero minimo per garantire la sicurezza delle basi strategiche, la capacità di intervento a livello regionale e un limitato supporto alle forze di Kabul.
E se sul fronte politico si impone l’attesa, sul piano della sicurezza le preoccupazioni trovano conferma nelle minacce talebane che, sebbene concrete, non hanno impedito al 58% degli elettori di esercitare il proprio diritto di voto al primo turno elettorale.
Nel complesso possiamo dire che le attuali elezioni sono più sentite di quanto non lo siano state le precedenti del 2009: circa il 50 % di elettori in più, di questi il 36 % donne. Un dato importante da leggere come segnale di fiducia nei confronti del processo elettorale, in contrapposizione all’alto livello di conflittualità socio-politica.
Zalmai Rassoul, il candidato sponsorizzato da Karzai, non ha ottenuto il successo elettorale sperato accontentandosi dell’11,5 % delle preferenze. Il suo ruolo, che non si esaurisce con l’esclusione dal ballottaggio, contribuirà a stabilizzare gli equilibri elettorali che vedranno coinvolti i due candidati rimasti in corsa: Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri) con il 45 % delle preferenze e forte dell’endorsement di Rassoul, e Ashraf Ghani Ahmadzai (ex ministro delle Finanze) fermo al 31,6 %.
Abdullah contro Ghani
Entrambi i candidati in corsa hanno dichiarato che firmeranno l’accordo di sicurezza bilaterale.
Abdullah si aspetta di vincere; uno scenario che, imprevisti a parte, potrebbe realizzarsi.
Ma è difficile dire come si concluderà questo importante processo elettorale poiché, a fronte di un vantaggio significativo di Abdullah (almeno nei numeri) si contrappongono dinamiche politiche che poggiano su variabili linee di faglia di natura etnica, in particolare quelle dei gruppi pashtun che guarderebbero con maggior favore a Ghani – pashtun –, come alternativa ad Abdullah – metà pashtun e metà tagico.
E infatti, a pochi giorni dalle elezioni, i colpi di scena non sono mancati con lo schieramento, a favore di Ghani, di Abdul Rahim Ayoubi, leader del partito Milate Mutahed a cui si aggiunge una serie di dichiarazioni di sostegno di alto profilo, dal vice-presidente Ahmad Zia Massud (il cui ruolo di leader tagico potrebbe prevenire conflitti di natura etnica), al partito dei giovani afghani Etelaf-e-Meli Nahj Naween, alle numerose manifestazioni di sostegno di alcuni importanti leader religiosi e, ancora, da una significativa parte dell’elettorato femminile. Insomma, sebbene Abdullah sia sulla carta il candidato dato per vincitore, i giochi sono tutt’altro che chiusi.
Quello che ci attende è un cambio alla guida dell’Afghanistan che non avverrà prima della fine dell’estate: le elezioni sono in calendario per il 14 giugno, i risultati finali saranno annunciati il 22 e la proclamazione avverrà non prima del 22 luglio, brogli elettorali permettendo. Già, perche il licenziamento di 5338 dipendenti della Commissione Elettorale indipendente accusati di frode ci ricorda, ancora una volta, l’endemico livello di corruzione del “sistema afghano”, che non sorprende ma induce una distratta opinione pubblica globale ad accettare il risultato finale, qualunque esso sia.
Riconcilizione con i talebani
Che vinca Abdullah o Ghani, è probabile che nel breve termine poco cambierà e l’Afghanistan permarrà in una condizione di equilibrio instabile; le problematiche da affrontare rimarranno le stesse, potrebbero però cambiare i ritmi della politica presidenziale.
A fronte di una condizione sociale insostenibile, il sostanziale fallimento dei progetti infrastrutturali e un’economia nazionale inesistente, la decisione al momento più impegnativa si sposta sul piano politico ed è incentrata sul ruolo dei gruppi di opposizione armata nel futuro assetto del paese.
Ghani, dimostrandosi pragmatico e flessibile, ha dichiarato di voler percorrere la via della riconciliazione con i talebani fin da subito, aprendo a una possibile spartizione del potere attraverso un processo di graduale “power sharing”.
Un’opportuna linea strategica che Abdullah, sebbene riluttante, sarebbe comunque costretto a seguire. È solo una questione di tempistiche poiché l’unica via strategica che porta fuori dall’empasse afghano passa attraverso il compromesso che, se da un lato apre le porte ai talebani – formalmente imbattuti sul campo di battaglia – dall’altro imporrà una parziale revisione dei diritti costituzionali.
Un prezzo da pagare che la Comunità internazionale, e con essa la Nato, ha ormai da tempo messo in conto pur di sganciarsi da un impegno non più sostenibile e ormai impopolare, a fronte dei risultati parziali, ma non del tutto negativi, ottenuti in tredici anni di guerra: una guerra comunque non vinta e ormai estranea all’interesse e all’attenzione mediatica internazionali.
articolo pubblicato su OsservatorioIraq Medioriente e Nord Africa