Il 5 aprile 2014 si sono tenute le elezioni in Afghanistan, per la terza volta sotto l’attuale Costituzione. La domanda posta con maggiore frequenza rifletteva il nervosismo presente tanto all’interno dell’Amministrazione afghana quanto tra le Potenze occidentali, interessate a fondo dal risultato finale che emergerà dalla votazione: erano stati tratti i dovuti insegnamenti dalle elezioni del 2009, ampiamente ritenute truccate in favore del Presidente in carica Karzai? Questa volta i timori riguardavano non solo la situazione dal punto di vista della sicurezza, ma anche da quello logistico e organizzativo. L’elenco degli elettori è stato inizialmente compilato nel 2004, per le prime elezioni presidenziali sotto la nuova Costituzione. Nel 2009 e nel 2014, invece, la lista originale è stata semplicemente ritoccata, aggiungendo all’elenco i nomi di quanti, nel frattempo, avevano acquisito il diritto di voto. Secondo quanto avrebbe riportato un diplomatico occidentale, “le autorità stimano che le schede elettorali valide in circolazione fossero già almeno 20 milioni, numero che non include fino a 5 milioni di schede che si ritiene possano essere state contraffatte in Pakistan e in Iran tra il 2004 e il 2005”. Stando ad alcune voci, le schede false sarebbero state vendute sul mercato nero tra i 2 e i 5 dollari l’una1.
La Commissione elettorale nazionale ha ricevuto aiuti finanziari e assistenza da parte di diverse strutture occidentali. Fatta eccezione per 2.5 milioni, i 129 milioni di dollari spesi per lo svolgimento di queste elezioni sono giunti dalla comunità dei donatori. Il denaro ricevuto è stato impiegato in diversi modi, e non solamente per allestire e fornire il personale di circa 7.200 seggi elettorali. La Commissione, inoltre, ha rilasciato accrediti a più di 10.000 osservatori nazionali e ha riconosciuto 250.000 assistenti dei candidati. Nonostante tutta questa preparazione, la votazione era ritenuta a rischio per quel che un analista ha definito un “fenomeno spiacevole: l’incapacità di confrontarsi con l’entusiasmo mostrato dagli elettori nel prendere parte a quella che si è rivelata essere una competizione autentica per il futuro del Paese, che cerca di superare decenni di conflitti”2.
In queste elezioni, per la prima volta, Hamid Karzai non era in campo in qualità di candidato, ma il Presidente si è reso comunque protagonista di alcune manovre tese a mantenere la propria influenza nel Paese dopo aver lasciato, formalmente, il palazzo presidenziale. Lavorando con costanza dietro le quinte, ha ristretto il campo a tre candidati che riteneva disposti a lasciargli un ruolo da giocare anche dopo la fine del suo mandato. La sfida vera e propria vedeva infatti confrontarsi candidati che, in periodi differenti, avevano collaborato con il Presidente. Tra gli otto che hanno partecipato all’elezione, i tre vicini al Presidente erano Zalmai Rassoul, un medico di educazione francese che, in precedenza, aveva ricoperto il ruolo di Consulente per la sicurezza nazionale e di Ministro degli Esteri; Ashraf Ghani, un antropologo con un dottorato alla Columbia University che ha lavorato per la Banca Mondiale ed è stato Ministro delle Finanze nella prima Amministrazione capeggiata dal Presidente Karzai; e Abdullah Abdullah, avversario di Karzai nelle elezioni del 2009. Stando ad alcune denunce, due di questi candidati avrebbero ricevuto dei soldi da un fondo nero gestito dal Presidente Karzai, che si dice abbia dato decine di migliaia di dollari a Rassoul e a Ghani per aiutarli nelle loro campagne elettorali3. Il Presidente, inoltre, ha persuaso due dei suoi candidati preferiti – Ghani e Rassoul – a scegliere persone a lui vicine quali candidati alla vicepresidenza. La scelta compiuta da Ghani è stata la più controversa. Ad affiancarlo nelle elezioni è stato Abdurrashid Dostum, un signore della guerra uzbeko che si riteneva avrebbe portato alla coppia il sostegno del suo gruppo etnico. Sorprende particolarmente che Ghani abbia scelto Dostum, dal momento che in precedenza lo aveva descritto come un assassino.
Quanti hanno assistito all’elezione in qualità di osservatori, sono stati sollevati dal fatto che la minaccia dei Talebani di usare la violenza non ha avuto le conseguenze temute e attese. Le elezioni hanno ricevuto ampia copertura nella stampa estera. Una notizia nel “Washington Post” nota che “sotto il controllo delle forze armate, le terze elezioni presidenziali del Paese dalla caduta dei Talebani nel 2001 si sono svolte senza alcun attacco su larga scala e senza i grandi disagi temuti da molti Afghani, nonostante decine di attacchi minori siano comunque stati segnalati”4. Stando ad un’altra valutazione, questa volta espressa nel “New York Times”, l’alta affluenza alle urne, stimata essere da diversi funzionari elettorali tra il 60 e il 65 per cento, “rappresenterebbe un chiaro rifiuto pubblico dei Talebani, che avevano minacciato gli Afghani di stare alla larga dai seggi e giurato che avrebbero ostacolato le elezioni. Anche se nelle settimane precedenti le elezioni sono stati portati a termine numerosi attacchi contro obiettivi di alto profilo – colpendo tra gli altri un centro per la registrazione degli elettori, il quartier generale della Commissione elettorale e l’unico hotel di lusso di Kabul – i primi riscontri indicano che milioni di Afghani hanno ignorato le minacce, e che i limitati episodi di violenza avvenuti nel corso della giornata elettorale non sono serviti a fermarli dall’andare a votare”5. Si stima che l’affluenza degli elettori sia stata doppia rispetto al numero di quanti avevano partecipato alle elezioni del 2009. Quella volta, solo il 38 per cento degli elettori registrati si era recato ai seggi. Oggi invece, le indicazioni preliminari suggeriscono che avrebbero espresso il proprio voto almeno 7.5 dei 12 milioni di elettori registrati.
L’elezione ha creato maggior fiducia nel nascente sistema politico afghano, ma ha anche fornito l’opportunità alle forze armate di dimostrare la loro preparazione. “…L’esercito afghano ha esultato per aver portato a termine questo compito. I soldati statunitensi hanno ricevuto ordire di restare invisibili durante il sabato (giorno nel quale si svolgevano le votazioni) – lontano dai seggi e dalle operazioni militari – per assicurare che le elezioni apparissero saldamente sotto il controllo afghano”6.
Solo il tempo potrà dirci se le elezioni del 2014 saranno servite a costruire un ponte tra le divisioni esistenti, che fino ad oggi hanno reso difficile la gestione politica del Paese. Le prime letture dei risultati forniti dai funzionari elettorali suggeriscono che, nonostante gli sforzi compiuti dai tre candidati principali per presentarsi come leader nazionali e non come rappresentanti di singoli gruppi, almeno tre divisioni permarranno ancora nella società afghana. Queste sono basate sull’appartenenza etnica, la confessione religiosa e il crescente divario urbano. Abdullah Abdullah, un tagiko, ha viaggiato attraverso la provincia di Kandahar, il cuore dei Pashtun, dicendo di essersi rivolto alle persone giunte ad ascoltarlo in qualità di cittadini afghani, e non in quanto membri di un differente gruppo etnico. Ma, come sottolineato da un osservatore, “i primi riscontri da Kabul indicano che la politica etnica mantiene il suo potere. I candidati presidenziali hanno cercato di promuoversi come leader post-etnici, ponendo l’attenzione su riforme economiche e politiche invece che rimarcare quel tipo di settarismo che aveva alimentato la guerra civile degli anni novanta. Un risultato elettorale che ricalcasse le linee di divisione etnica complicherebbe la formazione del prossimo governo, rendendo necessari negoziati e compromessi per la creazione di un’ampia coalizione”7.
È poco probabile che delle elezioni, per quanto storiche sotto molti aspetti, possano lasciarsi alle spalle le divisioni che per secoli hanno segnato la società afghana. Queste elezioni possono essere considerate storiche in quanto rappresentano il primo trasferimento di potere pacifico, in un Paese nel quale la maggior parte dei Re e dei Presidenti sono morti in modo violento. Se contribuiranno o meno a superare le divisioni dipenderà da numerosi altri fattori, quali la forma che il Paese assumerà dopo il ritiro degli Americani; la volontà dei gruppi religiosi di comporre le proprie differenze grazie a processi politici e non ricorrendo alla violenza; l’abilità da parte delle forze di sicurezza afghane, ora notevolmente potenziate, di mantenere sotto controllo dozzine di milizie etniche esistenti, alcune delle quali create dagli Americani allo scopo di contrastare la crescente influenza dei Talebani; e il superamento del divario tra i centri urbani e quelli rurali, apparso negli ultimi anni. Questo problema è stato amplificato dal modo in cui gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO hanno gestito i tredici anni di conflitto. La strategia scelta, infatti, consisteva nel mantenere il controllo dei maggiori centri urbani, lasciando però buona parte delle campagne sotto l’influenza dei combattenti talebani.
Era opinione comune tra i vari analisti che il risultato elettorale non avrebbe portato alla vittoria diretta di nessuno dei candidati. La Costituzione stabilisce che si vada al ballottaggio nel caso in cui nessuno dei candidati riceva più del 50 per cento dei voti espressi. I tre candidati principali hanno contestato la validità di migliaia di schede scrutinate; e questo dovrà essere verificato prima che la Commissione elettorale possa annunciare il risultato finale. Lo svolgimento di questa operazione richiederà numerose settimane e pone pertanto un problema costituzionale. Il mandato del Presidente Karzai scadrà il prossimo 31 maggio e la Costituzione del Paese non specifica se debba restare in carica fino all’ufficializzazione dei risultati o se invece sia necessario nominare un capo di Stato ad interim. Sembra che le elezioni di aprile finiranno col creare alcuni problemi costituzionali, e il Paese potrebbe non avere la necessaria esperienza e capacità istituzionale per risolverli.
(Traduzione dall’inglese di Giulio Ferracuti)