Elezioni presidenziali e nodi irrisolti di El Salvador

Creato il 21 febbraio 2014 da Vfabris @FabrizioLorusso

[Fabrizio Lorusso - Carmilla] Il 2 febbraio scorso ci sono state le elezioni presidenziali a El Salvador. Nessun candidato ha superato il 50% più uno dei voti, quindi si andrà al ballottaggio il 9 marzo per decidere chi sarà il nuovo presidente tra il 2014 e il 2019. Nel “Pulgarcito de América” (Pollicino d’America), com’è soprannominato questo paese per le sue piccole dimensioni (poco più di 21.000 metri quadrati, più o meno come la Puglia o l’Emilia Romagna) sono tante le questioni aperte, al di là della campagna elettorale e dei sondaggi che, per ora, stanno favorendo la sinistra del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) al secondo turno. Un primo dato è che per la prima volta hanno potuto votare i quasi tre milioni di salvadoregni residenti all’estero, due milioni e mezzo solo negli Stati Uniti, anche se solo 142mila di loro si sono potuti effettivamente iscrivere nelle liste elettorali. L’affluenza alle urne è stata bassa: solo il 52% degli aventi diritto (17% in meno rispetto al 2009), cioè 4 milioni 955 mila su un totale di 6,3 milioni di abitanti. E’ la quinta volta che i salvadoregni votano alle presidenziali dalla fine della guerra civile (1980-1992) che fece 75mila vittime e 15mila desaparecidos e vide confrontarsi i guerriglieri dell’FMLN e le élite conservatrici delle cupole politiche e imprenditoriali, sostenute dall’esercito.

Il partito attualmente al governo, l’FMLN, nato dopo l’incorporazione della guerriglia alla vita politica, ha vinto le presidenziali per la prima volta nella sua storia nel 2009 con un candidato di “compromesso”, cioè l’ex corrispondente di CNN in America centrale, Mauricio Funes, un personaggio non organico al Frente, gradito al mondo dell’impresa e alla classe media, quindi percepito come meno radicale. Quest’anno, invece, il candidato che per un soffio (ha preso il 49% dei voti) non ha ottenuto la vittoria al primo turno è l’ex combattente e sindacalista Salvador Sánchez Cerén, ex Ministro dell’Istruzione che ricopre la carica di vicepresidente e incarna l’anima più autentica dell’FMLN. In caso di vittoria definitiva il 9 marzo sarà accompagnato da un candidato alla vicepresidenza, Óscar Ortiz, che è anch’egli un dirigente del Frente anche se rappresenta la corrente più innovatrice e critica della verticalità ereditata dalla struttura di partito che dominava durante e dopo la guerra civile. Sánchez Cerén potrebbe diventare il terzo presidente ex guerrigliero in America Latina, dopo la brasiliana Dilma Roussef e l’uruguaiano José Mújica.

La “tensione generazionale” all’interno del partito tra innovatori e vecchia classe dirigente (lacomandancia guerrigliera) sembra aver trovato una sintesi accettabile nel duo presidente/vice e dovrebbe andare a sostituirsi a un’altra “tensione” che è prevalsa in questi anni di governo (2009-2013). Si tratta di quella tra il Frente e il capo di stato attuale Funes, un moderato che nel 2009, da una parte, ha permesso all’FMLN di sdoganarsi come forza di governo, ottenendo consensi anche tra i settori conservatori, e dall’altra è considerato come un outsider poco propenso a toccare gli interessi imprenditoriali e a cambiare con decisione la direzione della politica economica in senso meno ortodosso e neoliberale. In effetti, all’atto pratico, è andata proprio così, nonostante l’introduzione di alcuni programmi sociali e di un ruolo più attivo dello stato. Ad ogni modo il Frente ha mostrato la sua capacità di governare e d’integrarsi ala politica dell’epoca post-conflitto armato, per cui ora le frange più organiche e storiche del partito reclamino un ruolo centrale.

La destra salvadoregna è rappresentata fondamentalmente da due gruppi della medesima oligarchia nazionale, ossia dalla “moderata” coalizione Gana (Gran Alianza por la Unidad Nacional) dell’ex presidente (2004-2009) Elías Antonio Saca e dal partito più estremista Arena (Alianza Republicana Nacionalista), già al potere dal 1989 al 2009, che ha presentato il candidato Norman Quijano, ex sindaco della capitale. Arena sorse negli anni ottanta e durante il conflitto armato si vincolò agli squadroni della morte. Il suo fondatore, Il Maggiore Roberto d’Aubuisson, fu accusato di essere l’autore intellettuale dell’assassinio di Monsignor Arnulfo Romero nel 1980.

Con proposte che sono variazioni sul tema del dogma neoliberista, Quijano, odontologo di 67 anni, ha avuto il 39% delle preferenze, mentre Saca ha ottenuto l’11,4% dei voti, sostenuto dall’alleanza Gana e dal suo nuovo Partido Concertación Nacional, nato da una costola di Arena. Il suo bacino elettorale potrà essere determinante per il ballottaggio tra Quijano di Arena e Sánchez Cerén del Frente. Di fatto la presenza di Saca e di una destra divisa tra “moderati” e “intransigenti” in campagna elettorale è stata il catalizzatore degli attacchi di Arena che ha sottovalutato il pericolo di una vittoria delle sinistre.

La coalizione Gana s’è proposta come una forza centrista di bilanciamento e sarà oggetto dei corteggiamenti de primi due partiti. Lo stesso Sánchez Cerén, appena usciti i risultati, ha messo le mani avanti e s’è dichiarato disposto a “lavorare con tutti per costruire un’agenda per il paese”. L’ex presidente Saca potrebbe “far pagare” un prezzo politico per il suo sostegno al Frente nel medio periodo, per esempio nel 2015 quando si voterà per rinnovare il congresso unicamerale di 84 deputati. Ad oggi l’FMNL ha una maggioranza relativa alla camera con i suoi 31 deputati, ma ha bisogno dei voti di Gana e dei suoi 11 deputati, oltre a quello di altri gruppi minori, per avere la maggioranza assoluta.

L’accordo con una destra “presentabile” ricorda molto le larghe intese all’italiana, ma pare un’alternativa viabile nel caso salvadoregno. Con un astensionismo intorno al 50% anche un recupero di voti tra indecisi e delusi è una strada per il Frente che, secondo i sondaggi più recenti, dovrebbe avere comunque un margine di vantaggio sufficiente per vincere il ballottaggio. Ciononostante, dopo i fatidici cento giorni di luna di miele post elettorale, potrebbero nascere più contrasti tra le anime organiche e di sinistra del Frente e la coalizione centrista Gana di Antonio Elías Saca di quanti non ne siano esplosi durante il mandato di Funes.

La sua amministrazione non ha rotto gli schemi neoliberisti, anche se ha mostrato alcune tendenze, non rivoluzionarie ma almeno differenti, che dovrebbero rinforzarsi in caso di conferma del Frente al governo: il maggior coinvolgimento statale nella formulazione della politica economica coi piani di sviluppo, in materia sociale per la riduzione della povertà e in tema di sicurezza nella lotto contro la criminalità organizzata, specialmente i narcos e lepandillas o gang della mara salvatrucha. Sono politiche che per essere continuate e ampliate richiedono risorse maggiori di quelle disponibili, sempre molto limitate per via della scarsa capacità dello stato di riscuotere le tasse, la mancanza di un sistema fiscale progressivo e l’avversione della classe imprenditoriale verso il fisco. Inoltre la crisi mondiale del 2008-2009 (e seguenti) s’è fatta sentire a El Salvador più che nel resto dell’America Latina che, in genere, ha retto bene in questi anni. Quindi senza riforme la capacità riformatrice del Frente avrà un freno, anche se l’economia dovesse riprendere a crescere a ritmi sostenuti.

Funes scelse di non aderire all’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas), l’alleanza creata e promossa dal defunto presidente venezuelano Hugo Chávez, mentre decise di partecipare come osservatore all’Alleanza per il Pacifico, un blocco commerciale cui aderiscono il Cile, la Colombia, il Messico e il Però, sotto l’egida degli USA e col sostegno degli imprenditori nazionali, soprattutto degli esportatori. L’economia salvadoregna si basa da una parte su una gran massa di micro-proprietà agricole di sussistenza, necesssarie ma insufficienti per sfamare la maggior parte della popolazione rurale, e dall’altra sull’agricoltura per l’export (caffè, cotone, mais e zucchero coltivati nei latifondi), sull’industria tessile e la maquila, cioè le fabbriche di assemblaggio.

Le relazioni con il gruppo dell’oligarchia “esportatrice”, ridotto numericamente ma potente economicamente, rappresentano dunque la grande sfida di governo sul tema dell’equilibrio fiscale, per ora nettamente favorevole ai più ricchi. Altri punti chiave sono i vincoli e le alleanze internazionali, per ora più di tipo commerciale che strategico, il controllo della violenza imperante nel paese, e le riforme dello stato e dell’economia in senso più includente ed equo.

La campagna elettorale non è stata esente da dure accuse reciproche tra i candidati riguardo alla politica da seguire con la mara salvatrucha e il crimine. L’FMLN non ha potuto affrontare integralmente il problema, ma è riuscito a far scendere sensibilmente il tasso di omicidi nel paese, negoziando una tregua parziale con la criminalità organizzata. Per questo l’opposizione l’accusa di aver stipulato un “patto criminale”. Invece Sánchez Cerén ha incolpato a sua a volta la destra di Arena di aver scatenato ondate di violenza preelettorali utilizzando squadroni di sicari e delinquenti per destabilizzare la situazione di relativa calma che regnava. L’uso mediatico della violenza da parte dell’opposizione conservatrice ha chiuso il cerchio, ma non ha funzionato. Infatti, un cavallo di battaglia del Frente è stata la “questione morale”, cioè la denuncia di corruzione rivolta contro l’ex presidente Francisco Flores, eletto con Arena nel periodo 1999-2004, il quale avrebbe tentato la fuga dal paese nel gennaio scorso dopo essere stato accusato di aver ricevuto, e in parte intascato, tra i 10 e i 20 milioni di dollari in donazioni da parte del governo di Taiwan durante il suo mandato.

Il “patto” o tregua con le gang, che prevede un trattamento carcerario migliore per i boss detenuti in cambio di una diminuzione della violenza e i conflitti tra le gang, non rappresenta certamente una soluzione definitiva, ma ha dato alcuni risultati, per lo meno in termini statistici: il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti è sceso da 70 a 45 tra il 2010 e il 2012 e nel 2013 è stato di 39. Sono medie altissime, anche se inferiori a quelle dei paesi vicini che formano, insieme a El Salvador, il cosiddetto “triangolo della morte”: il Guatemala ha un tasso di 42 omicidi ogni 100mila abitanti e l’Honduras 82, tra i più elevati del mondo. La destra propone “mano dura” senza mediazioni contro la delinquenza e militarizzazione della politica di sicurezza contro narcos e pandillas, una “soluzione” facile per la propaganda, ma già rivelatasi nefasta in altri paesi, come il Messico, dove è stata propinata con risultati pessimi.

Il nuovo presidente assumerà l’incarico il primo giugno in un contesto di disuguaglianze estreme e stagnazione economica, con un PIL in crescita dell’1,9%, meno rispetto agli altri paesi latinoamericani, e la povertà che, sebbene sia diminuita del 7% negli ultimi 5 anni, colpisce ancora il 40% della popolazione. Alla mano dura delle destre il Frente contrappone la “mano intelligente”, cioè una serie di programmi di reinserimento sociale dei detenuti e degli ex carcerati, accompagnata dal mantenimento dei programmi governativi in favore delle scuole pubbliche e delle borse di studio finanziate da Alba Petroli, un’impresa mista dei comuni salvadoregni e del governo venezuelano.

Non si scorgono all’orizzonte, però, né proposte di riforma fiscale, né piani progressivi per la ricostruzione istituzionale e l’espansione della copertura della previdenza sociale, della salute, dei servizi pubblici, dei beni comuni e dell’educazione. Questi restano sempre sottoposti a logiche private o, nel migliore dei casi, a politiche clientelari o parziali, per cui stentano ad assumere un carattere veramente redistributivo e universale per via delle pressioni esterne, foriere di politiche economiche ortodosse ed escludenti, e di un’élite locale di certo più parassitaria che lungimirante.


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