Creare è dare forma al proprio destino. (Albert Camus)
Destino è ciò che non può non avvenire. E’ quella forza trainante dell’universo a cui nessuno può sottrarsi. Quella potenza sovrannaturale, indipendente dalla volontà dell’uomo, che presuppone una concatenazione di eventi a fini ineluttabili. Anticamente denominato fato, il destino incarna un disegno segreto che stabilisce incontri, rapporti, strade da percorrere, come e quando avrà termine la vita. Pur apparendo casuale, la nostra esistenza è infatti dominata da una serie di accadimenti da cui è impossibile sfuggire, attribuibili alle leggi della natura o alla presenza di un Dio. Non è un caso che Schopenhauer sostenga che il destino somiglia al vento, perché ci spinge rapidamente in avanti oppure ci rigetta all’indietro: contro di ciò poco possono fare le nostre fatiche e i nostri sforzi. E’ dello stesso avviso Nietzsche che giunge alle stesse conclusioni convinto che il nostro destino eserciti la sua influenza su di noi anche quando non ne abbiamo ancora appresa la natura: il nostro futuro detta le leggi del nostro oggi. Ma, evidentemente il concetto di destino scorre su molteplici binari: quello della fatalità, quello imposto dall’inconscio ma anche quello condizionato da convinzioni profonde e dal vissuto. Infatti, secondo le teorie di Jung è l’inconscio l’unico elemento a condizionare la nostra esistenza, dal momento che nella psiche sarebbero insiti archetipi che determinano i modi d’agire per giungere ad una finalità ben precisa. E non è da meno Heidegger che dal suo canto sostiene che gli uomini accumulano gli errori della loro vita e creano un mostro che si chiama destino.
Partendo da questi presupposti origina la riflessione per immagini di Elisabetta Falqui, che in senso metaforico si fa veggente - secondo la teoria rimbaudiana -, capace di andare al di là delle apparenze e delle sensazioni per giungere dove agli altri non è concesso, nel tentativo di comprendere se il destino si possa leggere nei volti delle persone. Se da una espressione, da uno sguardo o da una serie di elementi che caratterizzano un volto si possa capire ciò che la vita ha riservato ad ognuno di noi. E si interroga attraverso il ritratto fotografico che diventa territorio d’indagine attorno al quale gravita l’intero progetto: ritratti di grandi dimensioni ravvicinati e intimi, i cui tratti somatici sono modellati e scolpiti attraverso la luce che l’artista lascia emergere dall’oscurità. Ricordano le tavole fortemente realistiche del Fayum, le inquadrature serratissime che aboliscono lo sfondo per non distogliere la concentrazione. Zoomati fino all’esasperazione, perfettamente frontali e a tratti incombenti, danno allo spettatore l’illusione di penetrare l’anima dei soggetti prescelti dall’artista. Il tutto avvalorato dall’intervento del pubblico che diventa parte integrante del progetto dal momento che dovrà obbligatoriamente passare davanti ad uno specchio al termine dell’allestimento che vede contrapporsi undici ritratti frontali in bianco e nero ad un unico profilo a colori, perché in fondo, per citare Jodorowsky ci sono infiniti futuri possibili, che vado scegliendo proprio perché in ogni momento si apre davanti a me una possibilità differente.