Parlando di carne non vogliamo urtare la sensibilità dei vegetariani: siamo onnivori, quindi anche carnivori, anche se abbiamo celeberrimi detrattori di questa idea. Ovidio ne “Le Metamorfosi” fa dire a Pitagora: ““Sono le bestie d’indole cattiva e selvatica, le tigri d’Armenia e i leoni iracondi e i lupi e gli orsi, a godere di cibi sanguinolenti”,
Doveroso incipit per parlare di Lei: della Bistecca. Non la fettina o la paillard , ma proprio quella alta, con filetto e controfiletto e osso a T al centro (T Bone per semplificare come fanno gli Usa).
Diciamo subito come va preparata e assaporata, facendo riferimento al riconosciuto guru in materia, Dario Cecchini, famoso macellaio di Panzano in Chianti, il quale più che parlare declama al riguardo della carne rossa alla brace.
Dunque Ipse dixit: la fiorentina deve essere alta 6 cm e frollata trentacinque giorni e meglio se di femmina, perché la carne è più succosa. La brace dev’essere di leccio o di quercia, la griglia bassa, la carne non fredda di frigorifero. Va cotta per quattro minuti per parte, girandola una sola volta e 15 minuti ritta. Mentre cuoce non deve essere aggiunto nulla
Dopo la cottura farla riposare al caldo, coperta perchè non si asciughi, per 15-20 minuti. In tavola, serve un piatto caldo, un buon coltello, sale marino, olio e pepe.
Un piatto primordiale: o piace il sapore della carne al sangue o meglio desistere. Semplice e storica. La carne e il fuoco, quindi praticamente pre-storica.
Partiamo da un’epigone della cucina, pardon, delle cucine italiane, Pellegrino Artusi: “Bistecca alla fiorentina. Da beef-steak, parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella”. Questo ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
L’origine anglosassone dichiarata da Artusi sembra confermata dalle cronache fiorentine che parlano di messaggeri economici di Elisabetta I, incaricati di battere cassa per armare la flotta da opporre all’“Invencible Armada”spagnola. Tali gentiluomini, unitisi alle gozzoviglie popolari per la notte di San Lorenzo videro sui banconi dei beccai il vitello cotto allo spiedo da cui venivano tagliate le fette di carne con l’osso e andarono a richiederle con entusiasmo gridando“Beef-steak, Beef-steak”.
Ma come sempre nell’Italia degli Stati, comuni o signorie che fossero, ogni attribuizione può essere considerata indebita dal vicino, e comunque passibile di contestazione, quindi ci fu chi immediatamente contestò la paternità fiorentina. Adesso non è molto diverso, tant’è che le diatribe, anche quelle culinarie non mancano.
immediatamente insorsero a rivendicare l’origine del termine i livornesi adducendo il fatto che gli inglesi furono molto prima a Livorno che a Firenze.
Questo perché Livorno centro dei traffici marittimi del mediterraneo, era porto franco e a partire dal cinquecento ospitava enclavi olendese, germanica, ebraica, greca e inglese. Questa paternità linguistica è anche confermata dall’Accademia della Cucina Italiana di Arezzo, nota guarda caso per tutelare la razza chianina.
Comunque la vogliamo mettere sull’italianizzazione comunque toscana del termine, resta abbastanza evidente la derivazione anglosassone di questo taglio di carne e piuttosto originale la derivazione linguistica dal francese che gli inglesi usano per la carne in generale: “beef” da “beuf”, ”pork” da “porc”, “venison” da “veniason”. Cioè, l’animale defunto e ridotto in bistecca cambia nome: da vivi infatti si chiamerebbero in inglese ox, pig e deer.
Come non immaginarsi allora pantagruelici banchetti medioevali, dove i signori normanni si ingozzavano di ogni tipo di carne in barba ai servi sassoni, costretti dalla povertà agli avanzi o ai vegetali? La carne e le abbuffate di animali ci riportano culturalmente alla rudezza primordiale dei popoli celtici e germanici.
E in effetti i Normanni sono vichinghi, (da Northmen ossia “uomini del Nord”), scandinavi di origine germanica. E non per niente il Blòt (etimo da” bless”, benedire, “blood” sangue e “blòta”, rafforzare), il sacrificio dei popoli scandinavi alle divinità, prevedeva l’uccisione di maiali e cavalli. La carne veniva bollita in grandi calderoni e il sangue sparso sui simulacri delle divinità, i muri, i partecipanti al rito: insomma una festicciola un po’ granguignolesca.
Di tutt’altra pasta (è il caso di dirlo…), i popoli del bacino del Mediterraneo, che di carne ne vedevano pochina per scelta. Meglio fichi, formaggio e miele, dieta di elezione dei nerboruti atleti olimpici (niente doping). Greci e romani straviziavano si, ma raramente con carne. Eliogabalo, ad esempio, come gli odierni vegetariani, la sostituiva con i legumi e, come molti odierni chef, li condiva con metalli preziosi. D’altro canto è di epoca repubblicana la Legge delle Dodici Tavole che commina perfino la pena di morte e l’esilio a chi uccide un bue non malato o non esaurito dal lavoro.
Oggi siamo più tolleranti in materia di macellazione. Ecco quindi una versione più “mediterranea” della cottura della bistecca. Perché mediterranei siamo, ma ogni tanto un piatto di proteine animali, fatto bene e di un animale allevato e macellato con metodologie etiche e sostenibili non guasta.
Si tratta di una marinata, in cui far riposare la carne per almeno un paio d’ore.
Mettere in una ciotola abbondante olio d’oliva, un paio di spicchi d’aglio passati allo spremi aglio, pepe in grani schiacciato grossolanamente, rosmarino e alloro spezzettati . Con questo composto spennellare abbondantemente le bistecche da entrambe i lati e avvolgerle in carta oleata. Lasciare riposare a temperatura ambiente, almeno due ore. Poi metterle sulla griglia.
. inserito da Elena Bianco