Il 20 febbraio Emad Burnat, regista candidato all’Oscar con Guy Davidi per il documentario “5 Broken Cameras” (5 telecamere distrutte), è stato bloccato nell’aeroporto di Los Angeles.
Esser candidato agli Oscar ma non esser il benvenuto negli Stati Uniti: questa è la realtà della società odierna, questa lo è sempre stata. Fermato con moglie e figlio di otto anni, è stato dichiarato non idoneo all’ingresso negli States malgrado fosse candidato. Dopo aver contattato il regista americano Michael Moore la faccenda si è risolta con il rilascio del regista palestinese. Moore, per ottenere il rilascio, ha subito sentito gli organizzatori della Notte degli Oscar che hanno confermato l’invito di Burnat.
Burnat ha commentato: “Non è nulla. Ci sono abituato. Quando vivi sotto occupazione, senza nessun diritto, questa è la quotidianità”.
Gideon Levy sostiene a gran voce che questo documentario dimostra che, per la gente del luogo, la realtà dell’occupazione è che la lotta nonviolenta non esiste. Per informazione di coloro che predicano la nonviolenza (da parte dei Palestinesi): quando ci sono di mezzo i soldati delle Forze di Difesa Israeliane e la Polizia di Frontiera è sicuro che ci sarà violenza. Basterà che venga lanciata una pietra, che vi sia uno scontro verbale e, nonostante gli appelli degli organizzatori delle manifestazioni, l’arsenale con le armi più potenti del mondo si spalancherà – per tirare lo spinotto, liberare il gas, il proiettile di gomma, il gas moffetta e a volte il fuoco vivo, e soprattutto per troncare il sogno di una lotta nonviolenta.
È davvero difficile guardare il muro, il piano di insediamento e i soldati – e tutti che gridano “violenza” – e restare pacifici. Quasi impossibile.
Le telecamere di Burnat sono state distrutte cinque volte. Tre volte dai soldati, una volta in un incidente stradale sul lato opposto del muro divisorio, e una volta dai coloni violenti e ultra-ortodossi – la gioventù della cima della collina– che hanno fatto irruzione nelle case nonostante la corte l’avesse proibito.
La voce di Burnat, che accompagna il film, è una delle più sobrie che abbiate mai sentito a proposito dell’occupazione, senza ombra di odio e senza demagogia. Ed è così anche nella realtà. Andate a vedere questo film e fatevi una vostra idea.
Ci sono stati altri film su Bil’in ma questo, essendo una produzione su scala relativamente piccola, ha un taglio molto personale. La moglie di Burnat, che vorrebbe tenerlo lontano dalle telecamere e dal pericolo, ed il suo giovane figlio, che in questa realtà è cresciuto, compaiono insieme ai leader della lotta.
Nel film si vede la morte di una sola persona: Bassem Abu-Rahma, un giovane uomo pieno di fascino, benvoluto dai bambini che lo chiamavano “L’elefante”. L’inutile vittima di un presunto attentato da parte di un soldato nell’aprile del 2009.
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