Emergency, Cambogia

Creato il 12 luglio 2012 da Comeilmare

Simpatizzo da tempo per Emergency perché è un’associazione che ha come scopo l’assistenza medico-chirurgica gratuita alle vittime civili delle mine antiuomo, della povertà e delle guerre, di tutte le guerre e di tutte le vittime, dei buoni e dei cosiddetti ‘cattivi’ (quando di civili cattivi in guerra non ce n’è mai!).

Emergency è un’associazione umanitaria italiana indipendente e neutrale, fondata a Milano nel 1994, giuridicamente riconosciuta Onlus nel 1998, Ong nel 1999 e quest’anno partner del Dipartimento di Pubblica Informazione delle Nazioni Unite. A tutt’oggi ha aiutato 3’000’000 di persone in 13 paesi operando nei luoghi del mondo più colpiti dalla guerra e più poveri di infrastrutture e assistenza sanitaria. Con il supporto di migliaia di volontari e sostenitori Emergency costruisce ospedali, centri di riabilitazione fisica e sociale, posti di primo soccorso e centri pediatrici aiutando chiunque ne abbia bisogno, senza discriminazioni politiche, ideologiche o religiose. In ogni missione opera personale internazionale che forma personale locale fino al raggiungimento della completa autonomia operativa, utilizzando metodi di lavoro e protocolli terapeutici di alta qualità in collaborazione anche con le strutture sanitarie locali.

L’intervento di Emergency in Cambogia mira principalmente al sostegno delle vittime dei milioni di mine antiuomo tuttora sparse sul territorio. Qui non ci sono medici né infermieri, sterminati dai Khmer rossi in nome dell’ideale rurale della loro rivoluzione, e la sanità pubblica non esiste: meno del 25% della popolazione ha accesso all’assistenza sanitaria e non c’è un servizio pubblico gratuito. Quindi Emergency svolge un ruolo fondamentale nel sostenere e dare speranza al popolo gentile.

Grazie all’appuntamento preso ieri, facciamo visita alla Missione che raggiungiamo chiedendo un passaggio ad uno dei tanti ragazzi che scorazzano per la città con i loro motorini-taxi. Saliamo tutti e due sul mezzo: io sono schiacciata in mezzo e fatico a non appoggiarmi all’autista. Sbandiamo pericolosamente e ad ogni buca ci vedo già spiaccicati sull’asfalto. Mi rendo conto del rischio ma penso anche all’ironia del fatto che stiamo andando a visitare proprio un ospedale.

In pochi minuti percorriamo il breve tragitto fino alla Missione al di là del fiume, dove ci accoglie un sorridente Mr Bunlee. Ci presenta Angela, ‘international nurse’ originaria di Gorizia ma che vive a Londra. Gentilissima e disponibile, con un divertente italiano misto a inglese, ci racconta di essere qui dal 18 settembre, domani saranno due mesi. Ci prende subito a cuore perché forse per lei averci intorno vuol dire tirare un po’ il fiato dopo le prime durissime settimane di acclimatamento in una terra così disorientante. Adoro il suo modo garbato di rivolgersi a noi e di raccontare di sé e della missione, e sotto la sua timida discrezione intravedo la grande determinazione e la profonda forza d’animo sottese ad una scelta di vita così drastica e profondamente altruistica. Sento una forte empatia nei suoi confronti ma allo stesso tempo una grande distanza perché io non avrei il coraggio di lasciare il nido sicuro di Casa per dedicare la mia vita a chi è meno fortunato. Sono egoisticamente troppo attaccata alle Mie cose e ai miei spazi per scegliere di abbandonarli e ammiro chi invece ce la fa. Penso all’amico S., al suo Perù e al suo grande e folle cuore.

Per prima cosa Angela ci accompagna nel padiglione vicino all’ingresso nell’ufficio del ‘gran capo’ nonché coordinatore sanitario della Missione, il dottor Ognjen Predja. Ci accoglie con entusiasmo, capelli brizzolati, barba incolta e occhialini rotondi, camicia a scacchi, jeans e sandali. È un tipo pratico e schietto che ci dice di essere un medico svizzero in realtà di origine jugoslava ma dato che la Jugoslavia non esiste più e lui non si sente né serbo né croato ha preferito prendere la cittadinanza svizzera: che tipo bizzarro! Anche lui con noi è molto disponibile e ci dice che è qui da due anni e che tra due mesi se ne andrà in Afghanistan, nel cuore del conflitto, per coordinare un altro ospedale di Emergency.

Parliamo di tutto…

… della Missione, fondata nel 1998 a sostegno delle vittime civili della guerriglia che ha imperversato in Cambogia fino agli ani ’90, e ora sviluppatasi e ampliatasi grazie agli aiuti internazionali e alla collaborazione delle autorità locali che il dottore ci dice essere molto disponibili. A questo proposito chiedo con che criterio i pazienti vengono ricoverati qui piuttosto che nei fatiscenti ospedali statali e il dottore mi spiega che esiste una specie di contratto di collaborazione tra Emergency e lo Stato cambogiano, riveduto e corretto ogni due anni, che riguarda finanziamenti, medicinali e attrezzature sanitarie e anche le modalità di accettazione dei pazienti: Emergency accetta tutti ma ricovera solo i casi più gravi e urgenti, mentre gli altri vengono dirottati alle strutture sanitarie pubbliche. Angela sa che quando manda via qualcuno lo spedisce nell’inferno degli ospedali pubblici ma non può fare altro. L’ospedale della Missione infatti è relativamente piccolo e costituito da una struttura ospitante 107 posti letto e uno staff medico internazionale che si avvicenda continuamente. Ora c’è un team francese di otorino-laringoiatra, qualche medico inglese e un chirurgo ungherese di cui Angela tesse spesso le lodi per aver posto rimedio a molte situazioni disperate e aver salvato molte vite. C’è poi una schiera infinita di tecnici (90 persone) e personale di servizio (circa altre 90 persone) che mantiene il complesso in uno stato di efficienza ed igiene a prova di ASL italiana. Angela infatti ci dice che la prima cosa che colpisce i pazienti che arrivano qui, oltre all’ambiente familiare e accogliente, è l’igiene, davvero raro in questo polveroso paese. Per mantenere il complesso sono necessari circa 1-1,5 milioni di dollari all’anno.

… dei pazienti, la maggior parte ricoverati per incidenti stradali (non fatico a crederlo e inorridisco al pensiero del rischio corso poco fa in tre in motorino) e per mutilazioni causate dalle mine, piaga ancora viva soprattutto in questa parte del paese vicino al confine con la Thailandia. Qui si sono rifugiati i Khmer rossi e i loro capi (Pol Pot in testa) quando persero la guerra contro il Vietnam liberatore che avanzava. I Khmer rossi disseminarono in questa zona una gran quantità di mine, senza un piano preciso bensì a caso, quindi le mine sono ancora più difficili da individuare e ci si può imbattere in esse ad ogni passo. Il dottore ci dice inoltre che alcuni gruppi terroristici tuttora minano i territori con ordigni sempre più sofisticati e devastanti. La guida Lonely è molto chiara a questo proposito: non lasciare le strade principali, seguire sempre percorsi già battuti e non cercare a tutti i costi l’avventura selvaggia nella giungla perché il prezzo da pagare potrebbe essere troppo alto. Infatti si stima che sul territorio cambogiano ci siano ancora dai 5 ai 10 milioni di mine inesplose (sono al lavoro tre grandi compagnie sminatrici tra le quali la Hallo Trust inglese) e non stupiscono quindi i numerosi mutilati che vediamo per le strade, soprattutto qui a Battambang. Ricordo che l’Italia è tra le maggiori produttrici di mine antiuomo al mondo.

… dei numerosi casi di malformazioni e di tumori, soprattutto alle vie respiratorie e alle ossa dell’orecchio interno, dovuti all’uso di agenti chimici come il napalm e l’agente orange fatto dagli americani durante la guerra contro il vicino Vietnam: dagli aerei il confine di stato non si vede così chiaramente da generare scrupoli nell’aviazione americana durante i bombardamenti. Tuttora questi veleni mietono vittime e contaminano il sangue delle famiglie fino alla terza generazione… Un bollettino di guerra in tempo di pace!

Emergency a questo proposito fornisce l’assistenza migliore possibile offrendo non solo assistenza medica ma anche generi di prima necessità come spazzolini, ciabatte, doccia calda…, insomma tutto ciò che per noi è quotidianità e invece qui è un lusso. Si cerca poi di istruire quanto più personale locale possibile al fine di rendere un giorno la struttura indipendente dallo staff internazionale che quindi potrà concentrarsi sugli altri 5 punti di sostegno sanitario (Posti di primo soccorso detti FAP, First Aid Posts) che Emergency ha sul territorio cambogiano: piccoli e spartani centri sparsi nella giungla per fornire assistenza anche ai villaggi più sperduti. Nelle campagne e nella foresta infatti sono ancora numerosi i casi di malaria, tubercolosi e mortalità infantile causata da malnutrizione e dissenteria. Toccante il racconto di Angela dell’arrivo qui al pronto soccorso di un neonato in fin di vita, gonfio e tumefatto e per il quale non c’è stato altro da fare che dargli vestiti puliti, un letto e un po’ di pace…

Parliamo poi anche di Gino Strada e della sua possibile futura collaborazione con Angelina Jolie, seriamente impegnata nella causa cambogiana. Non mancano i commenti ironici e maliziosi sul loro incontro che avverrà qui a breve, credo settimana prossima.

E tutta la conversazione con il dottore si svolge con alle sue spalle una lavagna su cui campeggia la scritta:

“To have authority you need to have knowledge”

Poi i visitatori nn.054E e 022E, con tanto di cartellino rosso di identificazione, partono per la visita del complesso con la guida della disponibilissima Angela. Con la videocamera in mano la mia timida richiesta di poter filmare viene accolta con entusiasmo da tutti, consapevoli come me dell’importanza della testimonianza che riporterò a casa.

Ci aggiriamo così tra i colorati padiglioni bianchi e rossi ad un piano che ospitano i vari reparti, collegati da percorsi di ghiaia e ciottoli immersi in un lussureggiante giardino dall’incantevole e pacifica atmosfera: ecco l’isola felice intravista ieri attraverso il cancello.

Cominciamo il giro dalla sala mensa affacciandoci nella vicina pulitissima cucina dove le cuoce ci sorridono un po’ spaesate dall’improvvisa incursione. Poi entriamo nel padiglione che ospita la sala relax, dove i numerosi pazienti seduti a chiacchierare si girano all’unisono verso Angela che ci presenta come due amici italiani venuti a visitare la missione. Nello spiazzo erboso antistante la sala c’è un giovane seduto in disparte con il viso ingabbiato in una complicata rete di ferri e tiranti. Angela ci dice che si tratta della vittima di un incidente stradale che gli ha letteralmente distrutto la faccia e arrivato qui in condizioni disperate. Il chirurgo ungherese però l’ha salvato ricostruendogli le ossa del viso che però è ancora visibilmente deturpato. Il ragazzo si sente a disagio insieme agli altri e Angela ci dice che tende ad isolarsi, come ora, per trovare pace dagli sguardi compassionevoli che anche noi dobbiamo avere impressi sul viso.

Entriamo poi nella vicina casetta dei giochi, della quale Angela è particolarmente orgogliosa e dove ci dice che al mattino i bambini aspettano impazienti di entrare perché questo semplice asilo per loro è come un paradiso dove non devono lavorare né preoccuparsi di finire su qualche mina nascosta. Giocattoli, file ordinate di banchi di legno, disegni colorati alle pareti e una grande lavagna con la scritta ‘apple’. Qui infatti ai bambini viene anche insegnato un po’ di inglese e qualche fondamentale nozione di igiene personale e alimentare. Il tutto in un ambiente confortevole e pulito perché anche la sensazione fisica di familiarità e bellezza è importante per l’apprendimento e la formazione dei piccoli e in generale per la completa guarigione dei pazienti. Anche per questo l’atmosfera che si respira ovunque in questo ospedale è di serena bellezza: Angela ci fa riflettere sull’importanza che anche l’aspetto estetico dei luoghi ha nello stimolare lo spirito e così rafforzarlo per accelerare la guarigione del corpo. La decadente città non manca solo di igiene e assistenza ma anche di conforto per l’anima.

Passeggiamo attraverso il fiorito giardino assorbendo come spugne le parole di Angela e la loro energia benefica: la mente si riempie di continue sagge riflessioni che ci fanno vedere la Terra Gentile dall’inedito punto di vista di chi se ne occupa sacrificando tutto.

Arriviamo davanti al Pronto Soccorso che costituisce anche l’ingresso principale all’ospedale, antistante un cancello nero simile a quello sul  lato opposto del complesso, dal quale siamo entrati. Sulla facciata bianca a capanna con timpano e colonne, campeggia la grande scritta ‘EMERGENCY: Surgical Centre for War Victims’. Qui Angela ci chiede un piacere. Vedendoci armati di cavalletti e sofisticate reflex, vorrebbe che scattassimo per lei la foto del personale cambogiano della Missione da regalare al dottor Predja per la sua imminente partenza, come ricordo dei suoi due anni di Cambogia. Accettiamo entusiasti di poter essere utili anche noi con questo piccolo gesto e di lasciare nel cuore di queste fantastiche persone un po’ di noi. Così Angela chiama a raccolta il sorridente personale locale che si schiera di bianco vestito davanti alla grande scritta, incorniciata da rigogliose buganvillee fucsia. Ci chiede anche una foto insieme e io quasi le salto al collo per l’onore di posare insieme.

Poi entriamo nel Pronto Soccorso, candido e pulitissimo. Noto le pareti piastrellate fino a due metri di altezza e addirittura la pavimentazione rialzata lungo i bordi per facilitare la pulizia evitando l’accumulo di sporcizia tra pavimento e zoccolino. Si tratta di principi costruttivi dettati dalle norme ASL per gli ospedali e le cucine dei locali pubblici che sfido chiunque a vedere sempre rispettate nel nostro paese. Conosciamo il responsabile del Pronto Soccorso che ci accoglie cordialmente in un arioso e luminoso ambiente con lettighe dalle lenzuola candide e un grande bagno, lindo e profumato, dove Angela ci dice vengono portati tutti i pazienti appena entrati in ospedale, per essere lavati e disinfettati. Igiene prima di tutto.

Dalla porta in fondo al locale accediamo ad un corridoio dal quale entriamo nel Laboratorio Analisi: qui la finestra è schermata da una grata simile a quelle di molti edifici in Cambogia che continua ancora a ricordarmi l’S-21… La giovane e sorridente infermiera addetta alle analisi ci spiega che nel sangue dei pazienti si cercano soprattutto malattie veneree come la sifilide e l’HIV, molto diffuse a causa della prostituzione dilagante. Angela ci informa inoltre della carenza di sangue per gli interventi alla quale si cerca di supplire attraverso un’importante campagna di informazione che Emergency sta cercando di far assimilare alle famiglie dei pazienti, invitate a donare loro stesse il sangue necessario per le cure. Su una lavagna vediamo l’elenco delle dosi di sangue disponibili, divise per gruppo sanguigno.

Usciamo di nuovo nel corridoio e entriamo nella porta accanto: Radiologia. Qui Angela ci presenta il tecnico addetto ai raggi X, dicendo quanto lavori bene ma quanto siano comunque esigui i mezzi a disposizioni e costoso effettuare una lastra. È quindi fondamentale utilizzare al meglio le attrezzature disponibili ed evitare tecnologie troppo sofisticate perché eccessivamente costose e bisognose di personale troppo specializzato per farle funzionare. Ci porta ad esempio una lauta donazione anonima concretizzatasi in un sofisticatissimo lettino di ultima generazione dotato di ogni tipo di equipaggiamento. Purtroppo qui non c’è personale in grado di farlo funzionare né soldi per pagarne la formazione. Emergency ha quindi deciso di sostituirlo con un attrezzatura più semplice e meno costosa e impiegare i soldi (tanti) avanzati dal cambio per rifornire ad esempio la farmacia: i pazienti prima di tutto.

Imbocchiamo di nuovo il corridoio che poco più avanti piega a sinistra sbucando davanti al regno di Angela: la farmacia. Ora perfettamente ordinata e catalogata, prima era un caos. È stata lei ad eliminare i medicinali scaduti e a dare un senso alla confusione che due mesi fa regnava sovrana in questo fondamentale reparto dell’ospedale. Camminiamo tra gli ordinati scaffali di metallo e un’orgogliosa Angela ci fa vedere medicine di ogni tipo ma anche spazzolini, rasoi, ciabatte… Emergency fornisce tutto a questa gente che non ha proprio niente.

Procediamo nella visita oltrepassando un grande porta ed entrando nel blocco operatorio. Sbirciamo attraverso la porta che dà alle sale operatorie dove può entrare solo il personale sterile: attraverso le porte basculanti incrociamo lo sguardo di un medico con camice, cuffietta e mascherina verdi.

Procediamo entrando nello spogliatoio dei medici dove Angela spera di presentarci qualche dottore che parli un po’ con noi, mentre incontriamo solo uno scontroso medico del team francese che ci liquida con poche parole.

Entriamo quindi nella sala di terapia intensiva dove abbiamo il primo contato con i pazienti. Per la prima volta mi sento in imbarazzo nel filmare ma Angela mi incoraggia e con il suo speranzoso sguardo mi ricorda ancora una volta l’importanza della testimonianza. Mi incammino, telecamera alzata, tra le due file di letti e anche in mezzo all’estrema sofferenza e prostrazione fisica mi accolgono saluti e sorrisi. Ci fermiamo davanti al letto di un ragazzino tredicenne pieno di tubi e fasciature. Angela ci dice che è arrivato al Pronto Soccorso in condizioni disperate, con l’addome pieno di feci a causa di una perforazione intestinale non curata causata probabilmente da una caduta da un albero. Anche lui è stato operato dal chirurgo ungherese che ha praticamente fatto un miracolo per salvarlo anche se purtroppo non è ancora fuori pericolo. Il ragazzino è ancora intontito dall’anestesia ma quando si accorge di noi trova lo stesso la forza di sorriderci.

Usciamo all’aperto sotto un arioso porticato dove riprendo fiato, negli occhi la sorridente sofferenza del ragazzo. Intorno a noi ci sono tante persone in attesa davanti alle degenze: Angela ci spiega che oggi è giorno di visita e che questi sono i parenti dei pazienti: quando usciranno saranno meticolosamente controllati perché i camici rubacchiati qua e là sono preziosi per loro.

Così entriamo nelle sale di degenza, recentemente dotate di nuovi comodi letti con ruote che possono essere facilmente spostati in corridoio durante le meticolose pulizie giornaliere. Qui viviamo il contatto diretto con i pazienti, sistemati in due grandi e luminose sale (reparto uomini e reparto donne e bambini) gremite di vocianti amici e parenti raccolti intorno ai letti. Sorrisi e saluti accompagnano il nostro passaggio, persino da pazienti con entrambe le gambe in trazione sotto il peso di una rudimentale ma efficace tanica piena d’acqua. Ci avviciniamo ad un ragazzo circondato dagli amici che ci saluta gioiosamente mentre Angela ci spiega la condizione critica della sua gamba sinistra, maciullata da un incidente stradale e poi sottoposta a numerose operazioni di ricostruzione di ossa e muscoli. Poi Angela si avvicina al letto di un piccolo bambino solo, con una gamba in trazione. Lo abbraccia, ci gioca e in qualche modo gli strappa un sorriso mentre ci spiega come spesso le insegnanti escano dalla casa dei giochi per occuparsi dei piccoli immobilizzati come lui. Ci fermiamo poi davanti al letto di un giovanissimo padre accompagnato da moglie e figlio, che ci regala uno dei sorrisi più gioiosi della visita benché Angela ci dica rischi di perdere le gambe a causa della setticemia conseguente ad un’infezione non curata e propagatasi nelle ossa. Lo guardiamo parlare con la moglie, anche lei giovanissima, e la serenità familiare traspare persino in questo luogo di sofferenza. Il popolo cambogiano ci appare sempre più incredibile e Angela non fa che confermarcelo ripetendo spesso quanto la stupiscano la pazienza e la sopportazione che i cambogiani sanno dimostrare. Mettere i punti ad un paziente a mente lucida e non sentire un lamento, curare bambini che non piangono mai… È un popolo assuefatto all’accettazione incondizionata del dolore, alla negazione sin dall’infanzia del fondamentale sfogo emotivo del pianto, ad un’idea di vita intesa come sopravvivenza non esistenza.

Usciamo dall’ospedale passeggiando nel giardino con in testa un’infinità di pensieri e arriviamo al padiglione ospitante la sala di Fisioterapia, importantissima per i numerosi mutilati dagli incidenti e dalle mine. Qui un grande cartello dipinto a mano suggerisce al personale locale le giuste posizioni da far assumere ai pazienti affinché riacquistino mobilità e tono muscolare. Angela ci spiega che è difficile insegnare le corrette terapie ai pigri lavoratori cambogiani che infatti troviamo spaparanzati sulle sedie a chiacchierare. Il grande cuore del popolo cambogiano spesso non si rispecchia in iniziativa e solerzia nel lavoro e spesso Angela è costretta ad alzare la voce per farsi ascoltare e smuovere gli animi ricordando l’importanza di una corretta assistenza ai malati che, a maggior ragione in questo reparto, deve essere attenta, precisa e costante. Una sorridente ragazza ci accoglie mentre tenta di camminare appoggiata a due sbarre di legno con la sua nuova gamba artificiale.

Usciamo di nuovo nel giardino raggiungendo la lavanderia con il portico ingombro di profumatissimi panni stesi, e poi la sartoria dove le sarte, al lavoro tra pile di biancheria e di camici, ci salutano con fugaci sorrisi.

Ultima tappa il piccolo inceneritore: la Missione infatti è indipendente in tutto e per tutto e smaltisce da se i propri rifiuti, una vera e propria città (di pace) nella città.

Abbiamo così completato il giro e siamo tornati all’ingresso posteriore dal quale siamo entrati qualche ora fa e dove Emergency ci saluta con una stele eretta in memoria di Ilaria Alpi, giornalista italiana uccisa in Somalia, quale simbolo del sacrificio estremo e del lavoro encomiabile di queste persone eroiche.

Ho ancora mille domande e non vorrei lasciare Angela, ma è tardi, tra poco abbiamo l’autobus per Phnom Penh e anche lei deve a malincuore congedarci e tornare al lavoro. Ci raccomanda di stare attenti nel proseguimento del viaggio, soprattutto sulle pericolose strade, e di salutarle tanto l’Italia.

Arrivederci Angela, grazie e in bocca al lupo.

Temevo questa visita essendo io abbastanza impressionabile ma l’ambiente che Emergency ha saputo creare in questo luogo dimenticato è così familiare ed accogliente che non è possibile non sentirsi a proprio agio e desiderosi di portare la propria testimonianza ovunque ci sia un orecchio pronto ad ascoltarla!

Battambang, 17 novembre 2006


Per saperne di più sul mio viaggio in Cambogia di Federica L.
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=245390
Edizioni ilmiolibro.it – novembre 2006


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