Emigrare sì, ma per fare cosa? – Si viene e si va (due) #4

Da Stefano @bersatweet

Nella puntata #2 Emigrare sì, ma perché?, mi sono soffermato sui motivi che possono indurre alla scelta dell'emigrazione, sottolineando due modelli che derivano dalla necessità di lasciare il proprio paese: per Denise, la protagonista della puntata #0, una grande opportunità di carriera la portava a optare per un trasferimento da Londra a Singapore ( emigrazione controllata), mentre per Isa, ospite della puntata precedente, la voglia di dare una spallata al precariato ha aperto le strade dell'Argentina ( emigrazione volontaria).

Di che cosa si occupano gli emigranti all'estero? Nelle interviste di Si viene e si va abbiamo conosciuto situazioni molto diverse: managers, freelancers, softwaristi, scrittori, bloggers, per citarne alcune. Non sempre sono le professioni praticate in Italia: è il caso di Mariantonietta, che, nel seguire suo marito in Cile, si è inventata la cucina terapia, raccontata nel suo blog; oppure Giulia, che ha abbandonato la frenesia del suo lavoro milanese per aiutare le future mamme in una clinica di fecondazione assistita a Barcellona. C'è chi va all'estero sapendo perfettamente cosa andrà a fare, c'è chi parte solo con uno zaino in spalla; c'è chi spera in una crescita professionale (e questo normalmente riguarda l'emigrazione controllata), c'è chi parte alla ricerca di nuovi stimoli o per ritrovare se stessi (tipico dell'emigrazione volontaria/forzata).

L'emigrare, nella maggior parte dei casi, regala dei punti interrogativi. Ma mentre per Denise le questioni ruotavano soprattutto intorno alla gestione del cambiamento, non sempre le prospettive sono così positive. Isa, in un suo post (in fondo il link al post completo), sottolinea il concetto di downshifting che spesso riguarda l'emigrazione volontaria/forzata. Dice Isa:

Chi fa downshifting solitamente lascia un lavoro riconosciuto dalla società, di tipo intellettuale e molto esigente in termini di tempo (ad es. manager) per dedicarsi ad attività manuali considerate inferiori rispetto alla classe sociale di provenienza (ad es. artigiano, contadino). [...] Ho lasciato (o meglio, mi ha lasciato) un lavoro d'ufficio socialmente riconosciuto con contributi e forse un giorno la pensione, per dedicarmi al freelancing in un altro paese (ricominciando da zero).

Nel caso dell'emigrazione forzata, il quadro è tutto da disegnare, per cui il rischio di downshifting è molto alto e può riguardare l'aspetto professionale, la location o la qualità di vita. Non sempre l'equazione emigrazione volontaria/forzata - downshifting è automatica. Se consideriamo il caso dei ricercatori universitari, andare all'estero spesso significa costruirsi una carriera professionale che in Italia non ci sarebbe: basti pensare al matematico che, nonostante una scintillante carriera all'estero, ha ricevuto un secco rifiuto da parte del Politecnico di Torino, in quanto "un valido ricercatore, ma non un'eccellenza". Neanche a dirlo, ha preferito rimanere all'estero, dove la sua professionalità è opportunamente riconosciuta. Nel caso di Isa, invece, oltre al cambiamento professionale, c'è anche stata una riduzione della qualità di vita:

ho lasciato il primo mondo, il suo benessere, la sua sicurezza, per andare in Sud America dove alcuni prodotti o servizi non esistono e ci sono abitudini e culture diverse.

Infine c'è il caso di chi, pur di portare avanti la propria professione, sceglie locations poco allettanti o magari poco battute da expats. Isa ci diceva che per un freelancer in un certo senso un posto vale l'altro, in quanto con un computer e una buona connessione internet l'ufficio si può realizzare ovunque. Per professioni meno adatte allo smart working, la scelta della location è fondamentale, perché bisogna essere sicuri che la propria professione sia effettivamente richiesta. Ecco quindi che potrebbe essere utile trasferirsi temporaneamente con l'obiettivo di sondare il terreno, per capire se una città è meglio di un'altra, rendersi conto del costo della vita, chiarirsi le idee a 360°. In questo senso vengono in aiuto delle occupazioni che in Italia sono poco conosciute (e probabilmente anche non riconosciute). Ve ne propongo in particolare due.

Au pair (ragazzo/a alla pari). Sul sito www.aupairworld.com si trova la definizione:

un giovane di età compresa tra i 18 e i 30 anni che non è sposato e non ha figli e che, per un determinato periodo di tempo, decide di fare un'esperienza all'estero diventando parte di una famiglia ospitante. L'au pair, che diviene un fratello o una sorella maggiore, sostiene la famiglia prendendosi cura dei bambini e dando una mano nelle faccende domestiche. In cambio del proprio aiuto il giovane riceve vitto e alloggio gratuiti, nonché una paghetta. Un au pair tuttavia non è né una donna delle pulizie né una babysitter.

Uno degli aspetti più interessanti è l'opportunità di integrarsi con la cultura del posto, vivendo con la famiglia ospitante come un membro effettivo; si imparerà sicuramente la lingua ed è molto formativo, perché pone il/la ragazzo/a di fronte ad uno stile di vita che probabilmente sarà molto diverso dal nostro. In questo modo si riesce ad avere un quadro chiaro e si è in grado di capire se la destinazione scelta è quella giusta.

Housesitter. L'housesitter è colui che si prende cura di una casa, il cui padrone vive temporaneamente o per un periodo prolungato da un'altra parte. Il vantaggio è avere una casa "propria" da accudire, senza pagare l'affitto: sostanzialmente, la conduzione della casa è la tariffa. , tratto dal blog Italiansinfuga, potete trovare qualche dettaglio in più.

Quanto ha pesato il downshifting nella scelta vostra o di qualche vostro amico/conoscente che è espatriato?

Per approfondire:

Downshifting vs. Sideshifting - tratto dal blog Versione Argentina

Ragazza alla pari - tratto dal blog Italiansinfuga

Il matematico di Vienna rifiutato dal Politecnico - tratto da La Stampa

Le 7C e la gestione del cambiamento - la puntata #0 di Si viene e si va (due)