Emilia, Antonietta e i Borboni

Creato il 17 febbraio 2011 da Cultura Salentina

Con Emilia ci si rivede dopo un paio d’anni, credo. Anche se spesso ci sentiamo al telefono. Per questa sua terza edizione di Antonietta e i Borboni, per la casa editrice Avagliano, Roma, 2005, è stata invitata presso la libreria Kube di Gallipoli e al giovane libraio ha fatto il mio nome. Ma è qui anche per ritirare un premio letterario importante, del Presidente della Repubblica, a Taviano, per una sua commedia che verrà data il giorno 26 ottobre al Teatro Fasano dalla Compagnia “La Busacca”, diretta da Francesco Piccolo. Come sempre si rincontrano, si incrociano strade e destini! Per Emilia non è comunque una novità ricevere premi, sia a livello nazionale che internazionale. Uno di questi riconoscimenti glielo consegnai anch’io, in una sera di febbraio del 2001.

E siamo quattro anni più in là, in una sera di fine ottobre alla libreria Kube. “Oggi a Gallipoli – dico agli astanti della libreria (molti i giovani, un’intera classe di liceali, quasi tutte ragazze, con le loro due prof. Gabriella Casavecchia e Rita Piglionica) – “il nome di Antonietta De Pace è associato ad una via a lei intestata, che si trova nel centro storico, sullo “Scoglio”, roba da salnitro, muffa e abbandono, con quattro vecchietti rimasti a far da vigili di sé stessi, spossessati di tutti i servizi”.

Cercando del mio male le radici
avevo corso tutta la città.
Gonfio di cibo e d’imbecillità
tranquillo te ne andavi dagli amici
intriso di una strana
gioia di vivere anche nel dolore.

C’è, nei volti o negli squardi delle ragazze che stanno sedute nella libreria, assorte, come figurine in vetrina, qualcosa che ricordi un’Antonietta De Pace? Non lo sappiamo. Ma com’era Antonietta? Non dobbiamo farci rabdomanti per andare a cercare la fanciulla, basta sfogliare le pagine del libro di Emilia, ed eccolo presentarci a noi, mirabilmente, a tutto tondo. E’ viva e vitale, piena di energia e ribellione, gioca a cerchietti, è sudata, scrive, sbuffa, ride e sogna.La madre con il perenne mal di testa le dice che le si adatterebbe più la sciabola che una collana di perle. E ha ragione. In lei ci sono una ridda di sogni frenetici e colorati, un puzzle di sogni di sogni stanno nella sua testa piena di capelli neri e ricci, e nel cuore. Questa ragazzina è piena di voli e curiosità, così facile ad accendersi e a buttarsi nella mischia dell’esistenza, per non doverne poi soffrire. E infatti soffrirà, e molto. Lo farà stoicamente, senza un lamento. Come Emilia che è una distesa di sorrisi “stoici”, anche quando vorrebbe ringhiare dinanzi alla maleducazione e all’ignoranza.

Su, andiamo, ragazze del liceo “Quinto Ennio”, a infilarci anche noi nella città vecchia, nella mappa segreta di umide stradine, vicoli, corti, slarghi, nel pittoresco intrigo di logge, altane, poggioli e mignani, scale, comignoli e bassi, giardini di limoni nascosti nel cuore salso dello “Scoglio”; venite in quel teorema incantato di tetti e chiese che s’affacciano sul mare, in quell’equilibrio e leggiadrìa costruttiva che è Gallipoli città-isola. Sta ancora lì, come quasi due secoli fa, Antonietta, ha la vostra età ardente e scapestrata, questa “donna di marine/ che apre riviere”. Se avete avuto guai, sappiate che lei ne ha avuti più di voi: si trovò ben presto senza padre (forse assassinato), senza più beni e senza casa, nonostante il padre fosse un banchiere e sindaco di Gallipoli.

Alla sua morte la casa fu sequestrata per debiti di gioco contratti dal fratello Fortunato (sic!) e da lui avallati per il buon nome della famiglia. Ma ci sono anche raggiri e malversazioni da parte degli amministratori. Fatto sta che Antonietta è costretta ad andarsene a vivere con la madre a Villa Picciotti (l’attuale Alezio), nel casino dei Rocci Casaroli, il casato della madre; e poi, infine, a Napoli, dalla sorella Rosa e dal cognato Epaminonda Valentino, mazziniano della prima ora, dove avrebbe trovato la polvere e la gloria, l’amore e il sangue, come le classiche eroine dell’Ottocento, con la differenza che questa vita Antonietta la visse davvero, e in prima persona, non per riflesso sui libri. Ogni volta che apriamo le pagine del libro della Bernardini, noi la rivediamo, questa fanciulla, nel fulgore della sua bellezza, con gli occhi due tizzoni ardenti e lampeggianti, nella ribellione adolescenziale al male e all’ingiustizia, nel furore tempestoso della vendetta, simile all’onda rabbiosa del libeccio che aggredisce i bastioni di Gallipoli.

E sembra quasi che — percorrendo la strada principale, che porta il suo nome, con la tramontana che leviga il carparo e la pietra leccese dei palazzi nobiliari — ti venga incontro sorridente, le labbra di corallo fiammeggiante, la matassa dei capelli folti nerissimi, quasi blu, e ricci, e quello sguardo di donna di marine che continua ad “aprire riviere”.

Emilia Bernardini ci parla della sua ava, un personaggio storico, vero, autentico, che entrò a Napoli con Garibaldi. Il Dittatore dell’Italia Meridionale le affidò la direzione di un ospedale, a Napoli, e le fece assegnare una pensione vitalizia, una delle grandi protagoniste al femminile della storia del Risorgimento Italiano, insieme a Teresa Confalonieri, Adealaide Cairoli, Giuditta Sidoli, Anita Ribeiro Garibaldi, come conferma anche Antonio Spinosa, scrittore e storico nel suo libro “Italiane”. Una vera eroina, per amor di Patria, altissimo spirito di sacrificio e coraggio smisurato, ma anche una di quelle donne che fanno della loro vita un mazzo di rose e vi si immergono con tutte le spine, donne splendide, passionali, istintive e pur concrete, pragmatiche, con delle idee in testa e dei progetti da realizzare.

Per lei non ci fu mai posto per la mediocrità, l’accomodamento, il compromesso. Ma come talora accade, la sua forza era nella sua fragilità, la sua intensità e profondità risiedeva nella sua capacità di leggerezza, di saper giocare con la vita come lo si fa con l’arte: sapeva recitare, aveva imparato molto dai napoletani e parlava il dialetto partenopeo come una autentica popolana, pur avendo natali completamente diversi; aveva il dono dell’ironia, che usò magistralmente durante le quaratansei sfibranti udienze a cui fu sottoposta nel suo processo, durante la lunga segregazione. Anzi dobbiamo dire che insieme al coraggio e alla forza d’animo, fu proprio l’ironia a sostenere il suo spirito duramente colpito da tante avversità della vita. Era donna intrepida, donna estrema e definitiva, quelle donne che entrano nella storia a viva forza, che si fanno storia, nonostante la storia cerchi di respingerle e ricacciarle indietro, perché sovvertono un ordine millenaio costituito.

Dobbiamo tutto ad Emilia che ha fatto rinascere un personaggio di tale spessore, che appartiene alla storia, ma anche al nostro presente e al futuro, perché è “il valore della memoria che serve a farci capire che niente e’ mai passato, a fare da ponte fra il tempo e quello che il tempo rappresenta, tra il ricordo e la sua valutazione…” E’ stata la Bernardini, questa leccese colta, viva indomita e affascinanate, piena di curiosità e determinazione, che da sempre si sentiva vocata alla scrittura e alla poesia, a ridar piena vita e assoluta credibilità alla sua ava, in un rapporto di empatia straordinaria. Lo ha fatto con uno spessore narrativo degno del massimo rilievo, con l’ampio respiro del romanzo ottocentesco, ricostruendo quasi magicamente gli scenari, le architetture, gli arredi, i panorami di Gallipoli e del Salento del diciannovesimo secolo, con tutto lo splendore, la vitalità, lo scintillio, lo stupore e la meraviglia, il profumo, il fascino di un’epoca irripetibile. Il romanzo è strutturato al modo della fiction, con un taglio narrativo spedito, sia nei dialoghi che nella descrizione degli interni, con un ritmo che sa d’avventura, e anche – in qualche modo – di suspense. Se ne potrebbe fare un film, la sceneggiatura è quasi già fatta, per il resto, come ha scritto qualcuno, ogni biografia è solo frammentaria.

Lo scrittore biografo è un acchiappa-fantasmi, quello che cerca di catturare le ombre presenti nelle aderenze di una vita. Non è la realtà a stupirci, ma l’impatto con le cose, avremmo dovuto sapere… L’unica ragione di esistere di un romanzo è che tenti di rappresentare la vita. Può farlo direttamente o attraverso le grandi metafore della storia. In “Antonietta e i Borboni”, Emilia racconta la storia, ma racconta anche la realtà, un romanzo che vuole essere prima di tutto un inno alla memoria e poi al coraggio, alla femminilità combattiva di una donna diversa, ma è anche un inno alla vita, alla casualità, al destino.

Con Antonietta si narra la storia nascosta, occultata, omessa, di un risorgimento “al femminile”, di cui nessuno finora si era occupato, ma non solo. Emilia ci ha aperto uno spaccato di storia del costume e della vita del sud, in specie del Salento e di Napoli, all’epoca dei Borboni. Una vita fatta di speranze, sacrifici e delusioni, con molti nobili giovani intellettuali e liberali morti in carcere o impiccati in piazza. Il movimento, prima carbonaro e poi mazziniano, dei patrioti del sud è stato fondamentale per fare dell’Italia una nazione. E tuttavia è ingiustamente sottovalutato, se non del tutto dimenticato, nei libri di storia ufficiale. “Antonietta e i Borboni” colma in parte questa gravissima lacuna e noi speriamo vivamente che venga adottato in tutte le scuole del Salento, affinché i giovani salentini possano conoscere la straordinaria figura di Antonietta De Pace, rivoluzionaria gallipolina, e, insieme a lei, i vari patrioti salentini, parte dei quali rivivono nel romanzo di Emilia Bernardini — e parlo di Sigismondo Castromediano, Epaminonda Valentino, Liborio Romano, Schiavoni, Mignogna, Pisanelli, Libertini, ecc. — tutti nobili e intellettuali che esaltarono le loro virtù dando il meglio di sé stessi nella lotta contro i borboni per il trionfo della giustizia e della libertà. Che queste donne e questi uomini valorosi infondano ai nostri giovani e a tutti noi l’orgoglio di appartenere ad una terra e ad un popolo che dimostrò in ogni tempo di possedere la cultura e la civiltà del sacrificio, del dolore, del coraggio, della generosità e dell’accoglienza, valori che rappresentano da sempre il riscatto dell’uomo dalle sue brutture e atrocità.

Ma al di là dei valori propriamente storici e sociali (Emilia non è una storica, né una sociologa), “Antonietta e i Borboni” è soprattutto un bel romanzo, che si lascia leggere tutto d’un fiato, nonostante le sue 430 pagine, e dice cose che solo un romanzo può dire. Il romanzo — ha detto qualcuno — conosce l’inconscio prima di Freud, la lotta di classe prima di Marx, la ricerca dell’essenza e delle situazioni umane ben prima della fenomenologia. La storiografia scrive la storia della società, non quella dell’uomo. Perciò gli avvenimento storici di cui parla il romanzo sono spesso quelli che la storiografia ha dimenticato, la storia per uno scrittore deve essere capita e analizzata in se stessa come situazione esistenziale; uno storico racconta avvenimenti realmente accaduti, traccia mappe del reale, il romanziere disegna le carte dell’esistenza e l’esistenza non è sempre quello che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. Perché esistere vuol dire: essere nel mondo.

Nella valutazione del romanzo, la fedeltà alla realtà storica è cosa comunque secondaria perché – l’abbiamo già detto — il romanziere non è uno storico né un profeta, è un esploratore dell’esistenza.


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