Emilio Pasquale Gallori – Nerone . Firenze, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Benché io fossi un bambino vivace, molto vivace, e, per lo più, non prestassi orecchio alle lezioni, pure il mio maestro, che, a suon di nerbate, incuteva il timore in noi, tutti alunni dai cinque ai sette anni, e si mostrava severo con gli altri, aveva una grande simpatia per me e mi risparmiava anche le ramanzine. Io mi divertivo a far scarabocchi sui libri e sui quaderni, ed egli non mi sgridava, forse perchè gli sembrava che io avessi una speciale disposizione per il disegno. I miei compagni mi dicevano:
— Gallori, ci fai ora i briganti che assaltano la diligenza od i soldati che fanno alle fucilate? —
Io mi mettevo a disegnare con un gusto matto, e quei bambini erano tutti contenti e si disputavano i miei sgorbi, offrendomi generosamente in cambio pennini e matite. Ero il pittore della scuola !
Anche in casa, pur non dimenticando i miei doveri scolastici, imbrattavo di figure e di gruppi tutti i fogli di carta che mi capitavano fra le mani, ed ero felice quando mi chiudevo nella mia stanzetta, dove mi sentivo più libero. Quelle erano ore di pace per i miei Genitori, che preferivano rimanessi a tavolino piuttosto che sentirmi sbraitare o vedermi correre, far capriole e salti per le strade, e buttarmi nudo nelle acque del Mugnone.
Spesso, poi, con la creta presa a manate nel greto, impastavo teste ed anche intere figurine, che lasciavano meravigliati il Babbo e la Mamma. Durante quei lavori, però, i Genitori dipendevano dai miei ordini : non permettevo che essi entrassero nella mia cameretta prima che io non avessi terminato i gruppi. Poi aprivo l’esposizione; e li chiamavo ad alta voce, per far veder loro i miei soldati, giacche io avevo, allora, una grande passione per i militari e specialmente per le battaglie.
Mio Padre si era dato ad un mestiere facile: aveva aperto una bottega di vini; e se ne trovava contento. Ricordo che, mentre egli faceva fabbricare una casetta accanto a quella che abitavamo, io andavo spesso al monte dei sassi preparato per la fabbrica ; sceglievo quelli che a me sembravano più adatti per ciò che avevo in mente di fare; m’impadronivo degli scalpelli, lasciati, momentaneamente, lì sulla strada, mentre gli scalpellini si riposavano, e, a forza di scalpellate, cercavo di fare tante teste quanti erano i sassi da me scelti, spuntando, talvolta, gii scalpelli e buscandone scappellotti; oppure prendevo qualche grossa pietra, che doveva servire magari per un gradino e mi mettevo a subbiare, a subbiare, sfidando le grida minacciose degli scalpellini.
Fino ad allora, io non avevo veduto né quadri, né statue. Ero in Firenze ; ed avevo visitato solo le piccole chiese vicine alla nostra abitazione, alle quali mi conduceva mia Madre, nei giorni di festa, e dove essa, vedendo certi puttacci che reggevano i candelabri o facevano come da cariatidi agii altari, un giorno, mi domandò:
— Ti sentiresti caj)ace di fare uno di questi angeli?
— Forse, — risposi.
Ne’ miei tentativi cercavo di mettere il sentimento, e mi preoccupavo, più che altro, di dare alle mie teste un’espressione umana. Poiché mio fratello Leopoldo, maggiore di me, si era dato con amore allo studio dell’architettiura, i ragazzi, miei coetanei, un pochino invidiosi e forse maligni, dicevano:
— Belli quei disegni ! Sfido ! Ha il fratello pittore!
Il mio maestro insisteva nel dire a mio Padre :
— Signor Gaetano, sarebbe bene far studiare il disegno al suo bimbo, perché mi sembra che l’arte sia l’unica sua via. Egli è intelligente e studioso; ma si vede che il disegno lo attira di più. Gli faccia studiare il disegno, glielo faccia studiare.
Dalla scuola privata di Via San Gallo, una di quelle in cui i maestri scozzonavano i bambini per avviarli poi alle Scuole Pie, passai appunto a quella degli Scolopii. Mio Padre aveva anch’egii una grande passione per l’Arte. Mio zio, Gioacchino Gallori, era diventato celebre per i suoi acquarelli ; non v’era famiglia agiata, in Firenze, che non ne possedesse. Egli seguiva le orme del pittore Markò, che allora era in voga, e dipingeva sempre in uno stile quasi convenzionale, ma caratteristico. Però, verso i settant’anni, mio zio Gioacchino si mise a studiare, con amore, dal vero; e ricordo di averlo veduto più volte, con l’ombrellone e la sediolina sotto il braccio, mentre se ne andava, tutto contento, in campagna a dipingere. Egli mi chiamava a sé; mi voleva sempre vicino, e spesso mi diceva:
— Vedi, Emilio; questi miei nuovi disegni dal vero dicono più di tutti i miei antichi acquerelli.
Gli amici, che frequentavano la nostra casa, consigliavano i miei Genitori ad iniziarmi allo studio del disegno:
— Levino il ragazzo dalla scuola. Perché vogliono fare anche di lui un avvocato ?… Non si avvedono che egli ha disposizione per l’arte?
Gl’insegnanti delle Scuole Pie, che mi volevano bene, si mostrarono dispiacenti che io troncassi gli studii; ed avevano ragione. Gli amici, pur scusando la passione che avevano quei maestri per l’ insegnamento ed il timore di perdere in me un alunno, soggiungevano a mio Padre :
— Che bisogno ha Emilio di andare ancora a scuola? Ne sa abbastanza. Gli faccia studiare il disegno.
Mio Padre non seppe o non volle dar ascolto né agli uni ne agli altri.
— Farò una prova — disse. — Metterò Emilio nello studio di un pittore. Se dopo un po’ di tempo, questi dirà che egli ha disposizione per l’Arte, io lo farò continuare per quella via; altrimenti….
Ed i miei maestri si contentarono, sperando che io sarei ritornato da loro, per non avere io una vera vocazione per le arti belle. Il mio primo maestro di disegno, il pittore Luigi Lessi, come disegnatore era buono ; per gli elementi iniziava bene. Si prese subito interessamento di me, e non era trascorso molto tempo dalle prime lezioni quando egli consigliò a’ miei Genitori d’ inscrivermi all’ Accademia di belle arti. Allora il Babbo si risolvette a fare la domanda per la mia ammissione.
Emilio Gallori, Il dolore, Palazzo Pubblico, Siena
Frequentai assiduamente la scuola superiore di scultura, esercitandomi nello studio del nudo, e, nelle sere d’ inverno, disegnai in quella scuola dove venivano anche artisti valorosi, tra cui rammento con viv’issimo piacere Augusto Rivalta, Giovanni Fattori, Emilio Zocclii, Stefano Ussi, Sorbi, Bechi, Sarri, Andreotti, Vinca.
Tra i miei compagni, c’era Masini, uno dei migliori scolari di Lorenzo Bartolini, poi insegnante nell’Istituto di belle arti in Roma. Mio maestro di scultura fu Aristodemo Costoli, buono scultore del suo tempo; non era un artista di slancio, ma sapiente nella forma. Era valentissimo nella composizione; ma nei suoi lavori v’era poco sentimento. Anch’egli s’interessò di me, perchè vedeva che io « cercavo » a modo mio e non facevo come gli altri, più anziani di me, che tentavano d’imitarlo.
Mi lasciava fare. Sentiva, però, l’obbligo d’impartirmi lo stesso insegnamento. Prendeva in mano lo stecco, e, indicandomi i difetti, con una steccata, dava al mio lavoro l’impronta che caratterizzava quelli suoi.Quelle correzioni in me producevano un effetto curioso. Mi sembrava che con esse egli « fermasse » il mio lavoro. Ammiravo quei colpi da vero maestro; ma sentivo il bisogno di far conoscere al professor Costoli, come, dopo che egli aveva dato anche una sola .steccata alla mia creta, io non fossi più buono a far nulla. Ma come fare? Eppure io non potevo farne a meno. Mi risolvetti a parlare.
— Professore, vorrei dirle una cosa.
— Mi dica, mi dica…. — rispose egli.
— Ma non vorrei che le dispiacesse….
— Mi dica pure….
— Mi succede questo. Dopo che ella mi ha fatto una correzione al lavoro io rimango come interdetto. Non so più andare avanti. Non mi sento più la forza di ritornare a lavorare. Non cammino più.
Queste mie parole dovettero, certo, tornare sgradite al maestro.
— Ella non ha più bisogno di venire all’Accademia, — mi disse, serio serio.
— Ma che cosa dice mai, professore.
Pensai: « Debbo aver fatto male a parlare in quel modo ». E mi scusai.
— Tiri avanti, tiri avanti. Io non lo guarderò. Non si confonda….
— No, professore ; io ho sempre bisogno del suo aiuto. Mi dispiace di quanto mi dice. Dopo che ella mi ha dato le sue belle steccate, io non so più andare avanti. Desidererei, però che m’indicasse i difetti del mio lavoro, senza toccarlo.
Per più giorni egli, durante la lezione, si fermò a correggere i lavori di tutti gli altri studenti, e, quando era vicino al mio, passava davanti silenzioso e via.
A me dispiaceva quel contegno del professore, pensando che egli se la fosse presa a male; ma, in fondo, ero contento, perchè potevo fare, a mio agio, i miei rospetti.
Trascorsero alcune settimane, senza che il professore mi dicesse una parola. Io, contentone, perchè mi lasciava lavorare tranquillo.
Un giorno, il professore Costoli si fermò davanti a me:
— Gallori, quando ha terminato il lavoro, passi da me.
— Sissignore.
« Mi vorrà fare qualche rimprovero? Mi vorrà mandar via?… » pensai.
E mi recai, trepidante, dal professore.
— Si accomodi, si metta a sedere qua, — mi disse egli, tutto compito.
L’ espressione lieta del viso ed i suoi modi urbani mi sembrarono incoraggianti. Non c’era che dire. L’accoglienza era proprio gentile.
— Mi dica, -soggiunse egli, — mi dica: i suoi Genitori hanno mezzi per poterle prendere uno studio?
— Non lo so, professore, — risposi.
— A me sembra che, per lei, ci vorrebbe uno studio; ella potrebbe fare tentativi e ricerche, per studiare a modo suo. Ho veduto i suoi ultimi lavori e sono convinto che sarebbe meglio che facesse da sé. Ha ragione lei. Non si deve guardare sempre solo quello che fa il maestro ! Ognuno deve cercare la sua via : deve fare quello che sente e cercare di riprodurre fedelmente, efficacemente, quello che vede con i suoi occhi.
Io lo ascoltavo, meravigliato.
« Come mai il professore mi diceva questo, dopo la preghiera fattagli di non toccare più i miei lavori, preghiera che, certo, dovette sembrargli mossa da superbia ? »
Il professor Costoli continuò a dire :
— Io verrò, come suo buon amico, a trovarla nello studio, all’ora della passeggiata, insieme con mio figlio, con il mio Poldino.
Parlai a’ Genitori del progetto del professore.
Ed il Babbo:
— Via, cercati lo studio dove più ti piace, e lavora.
Trovai un modesto studio in Via San Gallo.
Quando il professor Costoli veniva da me, si metteva a .sedere sopra un sofà, davanti ai miei lavoretti, cavava la scatola del tabacco, annusava di tanto in tanto e s’ intratteneva con me a parlare d’arte e d’artisti.
— Quanto mi dispiace di esser vecchio! — diceva — Poldino, guarda Gallori. Tu studi .scultura come lui e come tuo padre. Bada, però, di non fare come me. Se tu m’imitassi, saresti un disgraziato!… Ah, se io potessi ritornare daccapo ! Ma io sono vecchio !… Gallori, le raccomando Poldino, che è già troppo «maestro». Procuri che egli faccia quello che ella non trovava in me.
Il vecchio professor Costoli fu sempre il mio difensore nei concorsi accademici e quando i miei tentativi non erano approvati dagli altri.
Egli, che disegnava magnificamente, diceva di me ai miei detrattori :
— Dovreste apprezzarlo di più, perchè egli cerca di rendere ciò che sente.
Per le feste del centenario di Dante in Firenze (eravamo nel 1865), il valente pittore Lanfredini, dovendo, per le decorazioni di alcuni palchi, in Piazza Santa Croce, dipingere a chiaroscuro alquanti finti bassorilievi rappresentanti episodi della vita del Sommo Poeta, prima di eseguirli, da artista coscienzioso, v olle vedere l’effetto che avrebbe prodotto il chiaroscuro, e mi pregò di fargli quel lavoro.
Egli ne rimase tanto contento e mi fu tanto grato del piacere che io gli avevo fatto che, in segno di riconoscenza, volle assolutamente che io accettassi un suo dono.
— Mi dispiacerebbe se tu non lo gradissi — fece, mettendomi in mano un piccolo involto.
— Ti servirà per il caffè.
Era un gruzzoletto di monete: una dozzina di napoleoni.
Nel vedere quel piccolo cumulo d’ oro, che mi sembrò di buon augurio, dissi fra me e me:
— Vedi che cosa frutta il lavoro?
Un altro mio amico pittore, l’Andreotti, che aveva avuto l’incarico di fare le decorazioni per il Teatro Nuovo di Pisa, mi disse, un giorno.
— Perchè non ti dai alla pittura ? Lascia la scultura che è tanto difficile e poco rimunerativa. Vieni con me sui ponti… Guadagnerai di più.
Io avevo preso passione per l’arte pittorica; e, pur sentendomi più attratto verso la statuaria, avrei seguito il consiglio dell’amico.
Egli ne tenne parola a’ miei Genitori ; ma non riuscì a convincerli.
— No, Emilio; non devi lasciare la scultura. Chi cambia mestiere, fa poi la zuppa nel paniere.
Recatosi a Pisa, l’Andreotti mi scrisse, domandandomi se io voleva aiutarlo nelle decorazioni di scultura che gli occorrevano per qnel Teatro Nuovo : puttini e cariatidi. « Te la senti di venire a lavorare con me? Questa sarebbe una buona occasione per guadagnare qualche soldo ».
« Se riuscirò a contentare l’Andreotti, bene, » pensai; « altrimenti, vedrò Pisa senza aver speso nulla. »
Allorché mi presentai, mi avvidi subito di non aver fatto una buona impressione all’appaltatore dei lavori, perchè, giovane com’ero, sembra che io gli dessi a sperare poco. Gli dissi che gli avrei fatto i putti, purche, se non gli fossero piaciuti, me lo avesse detto francamente ed io avrei tralasciato il lavoro. Incominciai due figure la mattina e le terminai la sera, sicché uno di quei decoratori ne rimase soddisfatto e mi disse di proseguire. Così, in pochi giorni, guadagnai facilmente centinaia di lire. L’appaltatore fu così contento di me che volle condurmi seco a Vigevano, dove feci altre decorazioni in cemento.
Presto ebbi fra i colleghi una riputazione di giovane promettente.
Giunse il momento del pensionato per Roma. La Toscana pure aveva i suoi concorsi per i posti di studio nella Città Eterna, uno per la scultura, uno per la pittura ed un terzo per l’architettura. Mi accinsi a quell’ardua impresa. Avevo, allora, diciotto anni e trattavasi di competere con artisti fatti. Appena incominciata la prova del nudo, mi sentii male. Pure lavorai per due giorni, con un forte male di capo. Giunsi, ciò non ostante, a fare anche l’ « extempore » del soggetto del bassorilievo. Poi dovevo metterlo insieme; ma, dopo tre o quattro giorni, mi colse una grande febbre e dovetti mettermi a letto, dove fui costretto a rimanere per più di due settimane, tanto che io credetti fosse trascorso il tempo utile per la esecuzione del lavoro. Quando seppi che mancavano ancora due giorni alla chiusura del concorso, volli tentare di terminare il bassorilievo. Mi recai all’Accademia e, pur sentendomi debole, mi posi a lavorare fino all’ ultimo giorno. Naturalmente, per la ristrettezza del tempo e per la convalescenza, non potei fare quel poco che avrei potuto per condurlo a termine.
Tre anni dopo, a ventun anno, io presi, di nuovo, parte al concorso ed ottenni il pensionato.
1905
( Emilio Pasquale Gallori, Memorie giovanili autobiografiche di letterati, artisti, scienziati, uomini politici, patrioti e pubblicisti, 1908 )