Emilio Tadini, Insomnia Night, 1990, Acrilici su tela, trittico,180 x 100 – 200 x 150 – 180 x 100 cm
Emilio Tadini 1985 -1997, Skira 2012 - Luca Pietro Nicoletti per MAE Milano Arte Expo recensisce la monografia curata da Arturo Carlo Quintavalle, Tadini 1985-1997. I profughi, i filosofi, la città, la notte, Milano, edizioni Skira: Mancava da tempo un’opera monografica che facesse il punto sull’opera di Emilio Tadini e rimettesse in circolazione un adeguato apparato iconografico. È quanto ha fatto Giorgio Marconi, portando a conclusione quel percorso già iniziato, nel 2007, con la mostra antologica a Fondazione Marconi (e relativa monografia) L’occhio della pittura dedicata al periodo 1960-1985. Con questo secondo volume, di mole più contenuta ma con le medesime caratteristiche editoriali, la storia dell’artista è stata ripercorsa quasi nella sua interezza, e senza dubbio tutti i suoi passaggi più salienti possono essere seguiti in un’utile scansione cronologica di opere e mostre. È un merito indiscusso di questi due volumi, che cadono rispettivamente a un lustro e a un decennio dalla dipartita dell’artista, aver messo di nuovo a disposizione molti materiali documentari dispersi e scomodi da reperire, come membra sparse fra archivi e biblioteche. In una sorta di montaggio, forse non strettamente filologico ma efficace, i quadri sono accompagnati da testi di e su Tadini che ne accompagnano, come lunghe didascalie, le varie stagioni di lavoro.
Questo, ovviamente, non ne fa un’opera definitiva su Emilio Tadini, ma un comodo punto di partenza per una futura biografia intellettuale che tenga insieme il pittore, lo scrittore e il critico, basandosi su una ricognizione bibliografica che si ponga il problema della fortuna critica e, soprattutto, della ricezione critica (anche nella stampa periodica) dell’opera e degli intrecci fra le arti, oltre a un sondaggio “sottomarino” nel mare magnum delle carte d’archivio, ancora tutte o quasi tutte da studiare (in buona parte conservate presso Spazio Tadini di Milano, sede dell’Archivio Tadini – n.d.r.).
Emilio Tadini, La lunga notte, 1987 – Ottavio Missoni e Giorgio Bocca con Tadini brindano per l’uscita del romanzo
E il nesso fra arti e lettere, come riconobbe lo stesso Tadini, è strettissimo. Lo sottolinea anche Arturo Carlo Quintavalle, autore del lungo saggio introduttivo (l’ultimo in ordine di tempo di una consistente serie di contributi che lo studioso ha dedicato, nel tempo, all’artista): «Tadini è un pittore colto ed è un lettore attento dei testi e delle ideologie, per questo le sue opere sono complesse» (p. 17). Guardare i quadri, dunque, in questo caso non basta a cogliere la fitta rete di relazioni che attraversano queste grandi tele programmatiche: se ci si limitasse a decifrare lo stile, infatti, si perderebbe quella trama iconologica che si ricompone non solo tenendo in parallelo l’opera pittorica e quella letteraria: è indispensabile, infatti, tenere sempre presente il Tadini lettore (e traduttore, che è una forma penetrante di lettura da parte di uno scrittore), per poter cogliere, sebbene sia un percorso arduo e periglioso, il vero intertesto che precede l’invenzione compositiva. Se è fuori di dubbio, infatti, che tutto il suo lavoro costituisce una riflessione sulla «funzione del linguaggio onirico e la sua trasposizione nel contesto dell’arte» (p. 20), in un percorso imbevuto di letture psicanalitiche che prediligono il versante freudiano a quello junghiano, e se è altrettanto persuasiva la definizione della pittura degli anni Ottanta, sempre secondo la bella definizione di Quintavalle, come un «collage della memoria» (p. 18), rimangono da chiarire su bassi filologiche i nessi, pur verosimili, fra il Ballo dei filosofi, per esempio, e la rappresentazione del concetto di alienazione nell’accezione datane dalla scuola di Francoforte, per la quale «vuol dire vendita, ma della mente piuttosto che del corpo» (p. 20).
Tuttavia, Quintavalle non cede alla tentazione di instaurare un nesso (pure presente) fra il Tadini pittore e il Tadini scrittore, cimentandosi invece in un’ipotesi di smontaggio dei meccanismi creativi e delle possibili fonti visive che stanno alla base di questa produzione, da Max Beckman, che lo scrittore stesso aveva dichiarato in un’intervista di aver a lungo guardato, ma anche Dix e Grosz, tenuti insieme dal fatto di essersi cimentati, con vari risultati, al tema del trittico e a una sua rivisitazione moderna. Il trittico, sottolinea giustamente lo studioso, non è un genere, ma una struttura che si conferisce al discorso figurativo: è un modo di raffigurare storie e di instaurare un rapporto con la dimensione temporale. Come si legge infatti un trittico?
Emilio Tadini, Il corridore notturno, 1989, Acrilici su tela, trittico, 200 x 100 – 200 x 150 – 200 x 100 cm
È una sequenza ordinata di avvenimenti che accadono uno dopo l’altro, o un modo di visualizzare separatamente cose che avvengono simultaneamente? In un caso come nell’altro, negli spazi sospesi e sognanti di Tadini, memori certamente di Chagall e, sempre secondo Quintavalle, di Bacon (p. 19), nella loro fiabesca e intenzionale irrealtà, rimane essenziale la dimensione narrativa: «Forse» scrive, «il contributo più importante che Emilio Tadini lascia all’arte di oggi è l’idea che si possa ancora, in pittura, costruire un racconto». Proprio su questo punto, infatti, si instaura uno dei tanti nessi con la letteratura, poiché la critica, per descrivere i meccanismi della visione, deve servirsi del gergo della critica letteraria nel distinguere, come qui viene fatto, fra tre livelli narrativi: la fiaba, la rappresentazione mitica e, infine, una evocazione musicale (quest’ultima però più di atmosfera che di vero impianto narrativo). Tadini, infatti, «riflette sulla funzione della pittura, che non è solo traccia, luogo di incontro con la scrittura, ma è anche intreccio e suggestione musicale e ancora messinscena» (p. 16).
Emilio Tadini – Pannello per Renault in piazza del Duomo a Milano, 1994, Foto di Maria Mulas
È quasi inevitabile, in ogni caso, pensare a Tadini pittore in relazione alla scrittura, specialmente in una stagione come quella degli anni Ottanta e Novanta che coincide, dopo un lungo silenzio, con il ritorno dell’artista alla narrativa. Dopo Le armi, l’amore negli anni Sessanta, infatti, non aveva più scritto un romanzo. Ora, invece, finita la stagione delle arti concettuali e di fronte a un imminente (ma ambiguo) ritorno alla pittura, escono, come un trittico, tre romanzi: L’Opera (1982), che è un implicito atto d’accusa nei confronti della critica d’arte; le fluviali memorie della compagna di un ex gerarca fascista in La lunga notte (1987); e infine La Tempesta (1993). La scrittura sperimentale di Tadini, in piena linea lombarda, sembra abbia come scopo restituire un effetto simile al parlato, con dei momenti di comicità cinica ma esilarante, che si dispiega per forza di immagini visive, anche se restituite con la parola. Si ha come l’impressione, in certi punti, che la scrittura di Emilio Tadini, specie ne La lunga notte (ripubblicato da Einaudi nel 2010) cerchi di verbalizzare, di restituire in parola quella impressione di palinsesto ironico e fluttuante tipico dei suoi dipinti. Da qui si capisce meglio che le fiabe dipinte sono una sorta di teatro dell’assurdo, comici e surreali, a cui non dispiace, se si vuole, il grottesco come lo intende Grosz. Si è ben lontani, insomma, dall’innocenza alla Chagall, che pure è presente nell’elaborazione di quella sintassi visiva: nel quadro si accumulano immagini come sulla pagina si affastellano discorsi a incastro, in omaggio al principio della digressione: «Mi attirano, le digressioni» fa dire all’eroina de La lunga notte, «E poi, le digressioni… Servono, a chi racconta. Come le tentazioni al peccatore. Già, professionalmente indispensabili. E ho addirittura pensato –do proprio i numeri, a volte… Ho pensato… Forse nel mondo delle particelle –quello che si legge sui giornali, lì, sul piccolissimo- forse anche lì, in qualche modo, si fanno digressioni. Un modello, da sperimentare. “Il moto digressivo”… Potrei scoprirlo io. Premio Nobel!» (p. 134).
Gianfranco Pardi, Valerio Adami, Emilio Tadini e Giorgio Marconi a Milano, 1985, Foto di Maria Mulas
Non si resiste, insomma, alla tentazione di visualizzare certi passaggi della narrativa, specie nel romanzo del 1987, come se fossero descrizioni ecfrastiche di dipinti, anche quando in realtà non hanno nessun riferimento a opere reali, come in questo caso: «Mi ero addormentato tardi in albergo. E per tutta la notte la mia testa era stata percorsa in lungo e in largo da sogni enormi, sventolanti. Il lago, verticale: una specie di marmo, una parete di schiuma e riccioli di onde, un gran fondale solido, con dentro, scolpiti, a testa in giù, come se stessero cadendo, ma tranquillamente, quattro o cinque giovanotti, due vecchi, qualche bambino… Io sapevo, sognando, che erano dèi o semidei, tutto, dal primo all’ultimo –e non mi stupivano le giacche di bella stoffa inglese, i pantaloni di velluto, i capelli tagliati corti… Poi quell’acqua scolpita si era mossa, ondulando. E adesso veniva giù a precipizio contro la mia finestra. Qui si abbatteva il sogno, lo spavento. Sveglia!» (p. 72). Sono quadri narrativi che Tadini, nel suo stile, avrebbe potuto raffigurare senza difficoltà, così come fortemente visiva è la descrizione, nello stesso libro, della collezione di teschi riunita dal Comandante appena defunto, che di per sé era già stato descritto con termini grotteschi degni di Grosz. Ed è una collezione in cui la fantasia istrionica di Tadini si esprime sfrenata, con una invenzione che calca sul grottesco senza trattenersi. Anche perché il Comandante, di fronte a questa teoria di scheletri e teschi in tante fogge e posture (comprese le più scabrose) rideva di gusto.
Tutto questo non poteva essere involontario: non a caso, lo stesso Tadini ha più volte riflettuto, in occasione di proprie esposizioni, sui modi e sui generi del racconto, e sulla fiaba in generale. Da lì, senza dubbio, si può riavvolgere il filo del discorso per risalire alle intenzioni dell’artista, tenendo magari in controluce i testi critici via via composti per altri artisti (e cercando quanto Tadini, come tutti, abbia proiettato di sé nel modo di guardare il lavoro dei colleghi). Fin da ora si potrà affermare, in tal senso, che se di fiaba si tratta, è una fiaba crudele (come tutte le fiabe in fondo sono crudeli). Ma d’altra parte, come scrisse l’artista stesso, è la stessa pittura, in sé, ad essere una vera e propria fiaba.
Luca Pietro Nicoletti
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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Luca Pietro Nicoletti per la recensione della monografia pubblicata da Skira nel 2012 e curata da Arturo Carlo Quintavalle, Tadini 1985-1997. I profughi, i filosofi, la città, la notte.
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