Le riprese sporche e pseudo-amatoriali non sono un vezzo del regista ma sono la chiave di lettura della storia, peraltro esplicitata subito dal protagonista, Taylor (Jake Gyllenhaal): l’agente documenta con una videocamera tutta la sua giornata lavorativa. Ne mette una in miniatura anche sulla propria divisa e su quella del suo compagno Zavala (Michael Peña), per poter registrare anche gli interventi più rischiosi. La sensazione di immediatezza come in un reality show, cara anche a una pietra miliare delle serie tv come The Shield, è supportata da una caratterizzazione dei personaggi spontanea ma molto verbosa, più vicina al gusto americano che al nostro. L’obiettivo di farci conoscere i personaggi senza colpi bassi o insegne luminose sulle loro teste è comunque centrato. Va anche detto che tutto questo trash talk, questo cazzeggio verbale esasperato, alla lunga può stancare: ecco allora che le ronde in auto sono spesso interrotte da un po’ d’azione, proiettili, sangue, scherzi da caserma, un po’ di sentimenti idioti e dimostrazioni di amicizia virile.
Seppure tutto quello che succede paia un’accumulo a caso di episodi, più ci si avvicina alla fine e più un disegno complessivo emerge: la valutazione finale non può non tenerne conto, sebbene il finale faccia rivalutare in positivo tutto quanto. È senza dubbio la parte più bella, più incisiva, quasi strappalacrime, ed è anche una bella sorpresa. Tutte le vittime mietute all’inizio possono restare a terra, ma chi non ha quei pregiudizi può passare una piacevole serata al cinema.
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