Il solo fatto di essere in grado di esemplificare qualunque tema di conversazione con esperienze personali o aneddoti tratti dal proprio vissuto non fa dell’individuo un soggetto interessante. Non automaticamente. Mettere a capo delle proprie affermazioni la prima persona singolare – che poi sarebbe il caso di introdurre i concetti di prima persona comune e prima persona anonima per meglio contraddistinguere chi si distingue poco o niente e chi è meglio che si abitui alla convivenza forzata e inevitabile nella massa scura dei sommersi – dicevo che la presenza della prima persona in ogni costrutto ai fini del monologo irrigidisce il dialogo – appunto – e demotiva l’interlocutore. Ci sono persone così, che per ogni tema hanno una sfilza di primati esperienziali pronti all’uso: malasanità, trasporti, catastrofi naturali, pubblica amministrazione, viaggi esotici, alimentazione. Siamo cresciuti infatti con il mito dei quindici minuti di celebrità warholiani, occasione che da casuale abbiamo strumentalmente frainteso con dovuta, fino a dilatarla ad almeno quindici anni di una vita tutta da raccontare, a nostro insindacabile giudizio. E pensare che i canali di marketing del sé sono ai massimi storici, ma l’audience, non dimentichiamolo, può cambiare di ora in ora. Metti che hai un follower in più o ti trovi di fronte uno che manco sa usare il computer. Ai tempi dell’umiltà, il non detto era l’aspetto più intrigante di una persona. Nell’era della presunzione è ciò che fa la differenza, quando osservi una persona in silenzio e pensi che figata, finalmente sta un po’ zitta.
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