Ennio Abate Appunti su «Quadernario» (2014) di LietoColle

Da Ennioabate

1.

Nell’ultimo quarantennio si è manifestato un fenomeno  interessante e ambiguo, che io chiamo dei “moltinpoesia”.  Sull’onda della scolarizzazione e comunicazione di massa e ultimamente del Web, la produzione di testi di poesia (o di “parapoesia” o “similpoesia”, come li definiva Raboni, sfiorando la questione senza affrontarla) ha raggiunto dimensioni imponenti. Il fenomeno non può essere più svalutato, riducendolo a categorie generiche (epigoni, minori, sottobosco, ecc.). Andrebbe studiato in profondità. E tuttavia nessuno lo fa. Di conseguenza esso non riesce né ad essere mappato nel suo insieme né vagliato criticamente, come pur si dovrebbe. Essendo improbabile e impensabile, in una fase come questa di crisi generale delle istituzioni, la nascita di una sorta di “Censis della poesia”, che fare?

2.

L’atteggiamento più onesto e saggio mi pare quello di “pescare” come si può in questo mare magnum. Procedendo a vista, a tentoni, alla spicciolata. Operando come singoli  osservatori o come  gruppi informali. Utilizzando bussole di fortuna. Anche perché sembra davvero esaurita la stagione delle grandi teorie letterarie di riferimento, che avevano, fino agli anni Settanta circa, incoraggiato anche per la poesia approcci di lettura solidi e ben motivati: formalisti, strutturalisti, marxisti o psicanalitici. Oggi, sbarazzandosi per quanto è possibile delle nostalgie per le  “età dell’oro poetico”, delle deprecazioni moralistiche contro il presente in mano ai “barbari”,  delle invettive  snobistiche a doppio segno (o avanguardistiche ed elitarie o populistiche  e “tutto fa brodo”), si potrebbe lo stesso fare un utile lavoro critico e difendere la consapevolezza che, sì, a lungo una visione dell’insieme di ciò che chiamiamo – purtroppo genericamente – ‘poesia’ o ‘poesia italiana’ o ‘poesia contemporanea’ non ci sarà, ma che dovrà pur essere costruita. E, nel frattempo, dare conto rigorosamente di ciò che ciascuno trae da questa o quella zona  più o meno “pescosa” del suddetto mare magnum (per rimanere alla metafora marinaresca). E verificare anche senza troppe gelosie il “pescato” altrui. Questo è l’intento del blog Poesia e moltinpoesia. Ed è alla luce di tali pensieri che, dopo un’attenta lettura del «Quadernario» (2014) della LietoColle a cura di Maurizio Cucchi che presenta «ventisette poeti d’oggi e un omaggio a Giuseppe Piccoli», scrivo questi appunti. Dichiaro in partrnza chetrattasi di reazioni e impressioni di un lettore che  legge i testi a modo suo, ma legge (non fa finta di  leggere…); e, dunque, giudica. A volte cogliendo nel segno. A volte forse no. Importante, però, mi pare pronunciarsi, non limitarsi al “mi piace/non mi piace” non argomentato o al silenzio diplomatico, ossequioso o inerte. La mia critica ha una sola pretesa: vuole essere dialogante. E perciò, se altri – o gli stessi  qui da me valutati – si  faranno sentire, sono ben disposto a rivedere, correggere, approfondire.  La poesia non può volere lettori addormentati o troppo compiacenti.

3.

Due parole sul progetto di «Quadernario». Che si basi su una formula a lungo rodata e senza grosse ambizioni teoriche – quella dell’almanacco -  mi pare una scelta realistica e, per quanto appena detto, quasi obbligata. I promotori  vogliono gettare «uno sguardo sui lavori in corso» e proporre testi di «autori già ben noti e apprezzati», di «giovani», di «autori di vari paesi e di diverse generazioni», oltre che delle monografie critiche «su autori italiani del Novecento». Benissimo. La selezione dei testi è affidata a una «équipe»; e anche questo è un punto di merito: sei o otto occhi vedono (di solito) meglio di due. Un solo appunto: nulla al momento si dice sui criteri di selezione dei nomi e dei testi e  sulla discussione interna al gruppo promotore. E sarebbe, invece, utile avere qualche ragguaglio. Perché quello che al loro interno si svolge è lavoro critico a tutti gli effetti. Tra l’altro, proprio in questi mesi, vengono pubblicati i pareri di lettura di Fortini, Sereni e Cases sugli inediti proposti in anni ormai lontani alla Einaudi o alla Mondadori. Al di là dell’autorevolezza di questi nomi e delle sedi per cui vennero o vengono stilati,  sarebbe un bene anche oggi, in un clima certamente cambiato, dare peso e trasparenza a questo lavorio critico, spicciolo ma prezioso.

4.

Passo alla mia analisi dei testi. Dei  cinque poeti stranieri ospitati nel «Quadernario» – Michael Donaghy, newyorchese; Antonio Gamoneda (Oviedo, Spagna); Marko Kravos di origini italiane, ma sloveno di formazione; Titos  Patrikios, ateniese; Peter Robinson, inglese di Salford – ho apprezzato soprattutto  i testi di Donaghy e Robinson. Mi paiono quelli più originali, quelli che non ignorano o meglio interagiscono col clima storico inquieto che stiamo vivendo.

5.

Le sette poesie del primo hanno il tono della conversazione seria e confidenziale  (« Mia cara, nota l’affinità / Tra la padovana per clavicembalo di Purcell/ E la bici del ciclista a dodici velocità»). Donaghy coglie segrete corrispondenze tra  scienza antica (Tolomeo) e tecnologia  d’oggi (le biciclette Schwinn), è un osservatore minuzioso, ma ha pure improvvise accensioni di violenza («Eccomi ancora, al pronto soccorso questa volta, che ti sputo i denti pieni di sangue nel palmo»). Quando evoca figure care (il padre, pare), ne mostra le ambiguità («Quest’uomo che più inganna e più è ingannato…»). E in una composizione, non casualmente dal titolo benjaminiano: «Angelus  novus», costruisce un potente ed ellittico mix di immaginari temporalmente lontani, fatto di eroi mitici («Vaffanculo sputa Achille. Freeze. A metà di un battito di ciglio, Ettore guarda negli occhi di Achille e si prende tutto il tempo del mondo per ricordare l’ultima volta che ha stretto Andromaca») e vittime anonime dei genocidi contemporanei («Prova a guardare questo: le vittime accecate dal flash. Nagasaki. In un infinito 1945 stanno di fronte alla macchina fotografica ignari del fotografo come lo sono di te, che li osservi»).

5.1.

Robinson, invece, scrive in versi lunghi “quasi prosa” («Due muri  soli s’incontrano a un cornicione con carta da parati spelati e mattoni nudi») e ritaglia con le forbici di un surrealismo non pretenzioso, ma ironico e  pungente, figure quasi allegoriche («Qui a tavola c’è Lingua Inglese, seduta su una sedia impagliata. Chignon in testa, indossa un abito da sera come un camice d’ospedale, un morbido seno scoperto. Mi sussurra frasi all’orecchio buono»). Sa tenere sveglio l’intelletto del lettore con  una raffica di domande inquisitorie («Qualcosa a che fare con promesse non mantenute? Incapacità? Scandalo? Solo risentimento? Assegni che nessuno ti dovrebbe chiedere di firmare?»). E sa mettere in attrito i dati di una quotidianità  appesantita e amorfa («fitto traffico/ nell’ora della colazione…»; «un giorno di moduli, copie,  fax,/ parole frettolose, code dolenti e tristi…») e  immagini della natura del tutto estranee alla realtà urbana («il picchio verde/ al lavoro  sulla corteccia di un pioppo»;  «i tralci tesi su un muro d’edera,/ o quell’airone al bordo del Torrente/con i piedi a mollo»; «i fulmini d’estate,/ i boati lontani, muti e sfavillanti /sopra le volte e cupole di nuvola». Fa emergere così – d’improvviso e quasi di straforo – un pensiero lancinante per i morti dimenticati, quei fantasmi che impongono «dolore fosco o vergogna». Sembrano  epifanie montaliane, più concentrate e scarne però. Anche se il dramma a cui allude resta inconcluso. Anzi pare che un diarismo piatto («Dopo la raffica di custodi al parcheggio,/ gli ambulanti di regali, i cartelli/che ogni trappola  turistica esige»)  tenga fin troppo a bada una persistente, ma un po’ inerte, tentazione metafisica («sembrava che il paesaggio volesse solo/ che ci elevassimo oltre.»).

6.

Gli altri tre poeti stranieri, malgrado la loro fama e rispettabile carriera, mi dicono di meno. Gamoneda mi pare ostaggio di un surrealismo enfatico, torbido e a volte spettrale («La mia nudità è liquida fino a riflettere il viso dei suicidi e i mendicanti dormono lunghi sogni con le orecchie appoggiate sul mio ventre e forse ascoltano l’ira delle loro madri ma dormono»). I  quattro lunghi brani tratti dal suo poema Descrizione della menzogna presentano versi lunghissimi dai toni sacerdotali e apodittici («La mia memoria è maledetta e gialla come un fiume interrato da molti anni»). E cedono a un gusto sensuale-mortuario («Nelle stalle dove mi avvolge il buio ricevo la morte e conversiamo fino a che mi lecca dolcemente le labbra») che trovo scostante. Kravos ha un piglio visionario e ispirato («poi si brinda/ alla salute dei sogni e delle voci inaridite,/ alla fede risorgiva, agli amori dei nipoti,/ con solenni sorsi di congedo sotto l’ulivo/ che ha conosciuto la tua mano, che grato/ un giorno ti farà sua linfa»),  evoca immagini primordiali («Tracce del legno -carbone/ nell’oscurità remota dell’antro,/  duello tra l’uomo e il fervido toro,/ nera forza del sangue sulla parete»), ma in fondo è alquanto freddo e involuto. Infine, Patrikios, pur famoso e apprezzato, nei testi qui  stampati mi pare un poeta  che s’abbandona a una retorica umanistica generica («Finché un giorno avvenne l’incredibile/ le città, la lingua, la musica, il tempo/ grazie a una donna divennero un tutt’uno/ e io un essere umano in mezzo agli umani»). È sentimentale ed estetizzante («Come può accadere che non svanisca/ il tepore della sua mano dalla mia mano/ come può accadere che rimanga in eterno/ il nostro ultimo addio/ come rimane nei bassorilievi del Ceramico?»). Ed in alcuni versi lo trovo  persino banale («Malgrado i progressi della tecnologia,/ i milioni di abitanti di Pechino,/ gli innumerevoli miei vicini ed io stesso/ tardiamo ad apprendere le novità»). O troppo moraleggiante  e di buon senso («Tuttavia i pericoli dell’età avanzata permangono/ e tra essi bisogna porre attenzione/ a due molto seri, per quanto meno evidenti:/ il primo, di chi si agita con vivacità eccessiva/ atteggiandosi a giovinetto pronto a tutto/ finché non sprofondi negli abissi del ridicolo;/ l’altro, di chi se ne sta immobile nella disperazione/ finché non se lo inghiotte il tempo»).

7.

Dei dieci poeti italiani «ben noti e apprezzati»   – Cristina Annino, Massimo Dagnino, Luigi Fontanella, Biancamaria Frabotta, Daniele Gorret, Giorgio Mannacio, Michele Miniello, Elio Pecora, Stefano Simoncelli – sempre sulla sola base dei testi qui proposti, che mi sento di dire? In quelli dell’Annino trovo frantumazione  e ribaltamento  svagato del senso (non solo del senso comune):  «la mia/squadra di anni/ tempissimamente lunghi/ come entrano in una valigia?». E scarti  continui, insistenti: «non/ pensa il cielo nulla, si muove/ folla fuori; dentro, sarà un cencio/ zitto di palme». Un modo di  scrivere poesia ancora stuzzicante, ma un po’ esausto. Massimo Dagnino dà con troppo distacco frammenti di un paesaggio urbano, che è quasi neutro o respinge («I pini inceneriti, i tralicci, le linee/ di massima pendenza collimano/ nel solco acquifero»; «stracci, plastica, pezzettini/ di cartone a involucro / di corpi molli condizionati/ dal buio»). Fontanella è davvero eccessivamente nostalgico  di un’adolescenza svanita («Ora/ li vorrei tutti qui i miei compagni./ Ora che ogni scialuppa/ è partita»;«Aspetto Anna sotto il cavalcavia/ di Fratte, Via Sabato de Vita») che mitizza in modi scontati e  piatti (« Ma mi commuovo/ per un nonnulla, l’adolescenza/ è assoluta ed eterna/ l’unica cosa che resta»). Oppure incita un se stesso troppo  privatistico a un doverismo  generico («Avrai i tuoi anni/ le tue disgrazie le tue diaspore/ le tue speranze./ Dovrai saper riconoscere/ il punto in cui incontrerai/ l’altro te stesso»). E così ripiega ora nell’aneddotica familiare  ora nel racconto  vagamente introspettivo («Nel sogno vorrei controbatterla, ma/ Berto, mia madre ed io – così/com’eravamo allora – /scompariamo ripiombando nell’abisso»). Frabotta costruisce ancora una poesia “quasi civile”. Lo fa, qui, sulla storia di Hina, la ragazza  di Sarezzo (Brescia) uccisa nel 2006 dal padre perché rifiutava le tradizioni della comunità pachistana. Ma la cronaca di quella violenza viene trasposta in un andamento troppo rassicurante, classicheggiante, eurocentrico («Ti lavano le donne con canfora e loto/ come un panno alla fonte, sulla nuca/ raccolti i capelli furono sepolti/ nel pomeriggio dell’Islam/ con te dentro un lenzuolo bianco»). A me pare ci sia una sovrapposizione di schemi culturali esteriori (parafemministi) che non penetrano nella tragedia reale. Gorret costruisce un personaggio nicciano, Anselmo Secòs, un «idiota in tutta la sua forza», che, avendo il senso del limite, sarebbe un vero saggio, anzi «l’unico saggio». E lo accompagna nella ricerca della Verità («ma non è detto che sia la Verità/ è quasi certo che sei parte del Falso…») con un tono ironico, benevolo e quasi ariostesco, ma a forza di spingerlo verso un rapporto primitivo con la  natura («Parte, così, talvolta, nei suoi boschi/ a colloquiare con pini e con castagni») sfocia nella (solita) apologia del «Niente, il Gran Bacino». Centrale anche nelle poesie Mannacio  è la meditazione esistenziale: vicende umane e fatti di natura sono osservati da distanze quasi lunari («Il fumo intenerito/rivela la città, le sue fontane/ piegate al vento») e vengono detti in componimenti stringati dalle chiuse spesso  fulminanti («Sussurri, grida, addii. Prossima è l’ora./ E una parola la imprigiona ancora»; «Lui vestito da Amleto, un teschio in mano/ ed una rosa in bocca. Sotto a chi tocca»). Miniello mi pare un introspettivo  risentito e severo. Tratteggia incontri rapidi con gente comune e li narra con parole anch’esse comuni («le sue parole oneste/ avevano sapore di vecchiaia/ ostentava un dolore calmo/ come se avesse/ rinunciato al cuore»). Accenna a sofferenze altrui («agitava le sue mani tozze/ e parlava parlava/ toglieva il respiro»; «Asfissiva gli altri/ con le sue storie assurde/ imponeva il suo piacere/ di assediare chiunque si mostrasse disponibile») che sono il corrispettivo delle proprie. Ma resta nell’alone di una poesia emozionale. E lo stesso mi pare succede a Pecora, che fa dei riepiloghi di  esistenze comuni: qualcuna più avventurosa («Non contano i cinquant’anni di mare,/ le trecento missioni di guerra (il Sirio, il Caboto)./ le fatiche di ragazzo col padre che nemmeno/ più scriveva da Caracas»), altre più quotidiane e in prevalenza di donne anziane bloccate nei ricordi del passato («raccontava che, a vent’anni, si faceva stringere/ così tanto il busto da svenire in chiesa alla messa cantata»). Il tono stesso delle sue rievocazioni sembra farsi umile,  dolcemente sublimato, molto crepuscolare («Ancora negli ultimi mesi/(morì di mattina, il primo di marzo)/ scrisse lettere in cui raccontava/ la neve alta che la chiudeva in cucina/ e la fioritura dei meli»). Simoncelli è alle prese con una memoria a frammenti. Ad essa attinge per ricostruire una  figura paterna. E costruisce spezzoni  molto prosastici  e diaristici («Ieri ho dato una mano di calce sui muri, tolto la polvere da mobili e mensole, lubrificato i lucchetti arrugginiti»; «Non la conosceva, non l’aveva mai vista, non sapeva nemmeno che esistesse, ma oggi è morta la Pacchioni, la mia vicina di casa all’Acquarola, una solitaria che amava come lui i gatti e i fiori selvaggi») intervallati da frammenti appena più onirici. Anche in lui l’introspezione è il dato che prevale. E lo stesso in Villalta. Mi pare  calato in una sua mistica della quotidianità agreste ed elegiaca («Immagino un campo appena arato, la terra fresca ancora/ e l’ora del tramonto che si avvicina/ con una nebbiolina sotto i pioppi, un alito dai fossi, una carezza/ che viene lenta e sente di/selva, lontananza e marzo»). E da lì si muove a caccia di «questo abbaglio dell’eternità», di «un vero altrove», di un consistere («come se avessimo dove stare/ perduta ogni naturalezza»). Con un’insoddisfazione un po’ artificiosa e querula («Capisci perché esco poco, da mesi, e anche se/ uscissi – capisci – con questi discorsi sfiniti/ che pesano nella testa, dove vuoi che vada, dove vuoi che resti?»). In conclusione, si potrebbe dire provvisoriamente che quasi tutti i poeti di questa sezione si muovano su un filone esistenziale-introspettivo più o meno marcato.

8.

Di quelli che il «Quadernario» classifica come «nuovi poeti» (e che hanno attirato – devo dire: faticosamente – la mia curiosità), distinguerei nettamente Alfonso Guida dai restanti. Mi pare un poeta interessante, anche se  non ne condivido l’humus. Azzarderei per lui persino una definzione: “meridionalismo metafisico e sgomento”. Mi pare, infatti, bloccato in una religiosità adolescenziale o avviluppato in un dialogo contorto con se stesso o con un alter ego (a volte vivo, a volte morto). Tuttavia, espone indirettamente una  materialità – meridionale, sì – misera e quasi oscena. Lo fa rovistando nella memoria personale e collettiva come se  fosse un secolare e statico e astorico archivio  di povertà e di dolore. M’impressiona per questa sua capacità di far vorticare in una enumerazione ossessiva e barocca immagini stanche e sfinite; e a volte, sempre sullo sfondo di quel paesaggio  ancora miticamente contadino, ma stravolto e malato,  di mettere in primo piano una qualche figura emblematica più netta e tragica.

8.1.

Degli altri direi in modi ancora più telegrafici che: – Nadia Augustoni nelle sue “fotografie italiane” presenta personaggi della provincia contadina più stramba e desolata, tra Fellini e Celati. Non mi pare che vada, però, oltre il bozzetto (o raffinato  o facile)  e non esce da un populismo benevolo e superficialmente mimetico; – Francesco Baucia accumula immagini  eterogenee: una prolungata elucubrazione surreal-filosofica; – Marco Corsi dà spazio a monologhi spaesati (e  un po’ prolissi) su  figurine femminili, lacerti d’immagini  urbane, aquile e balene e nuvole e pesci  e girasoli, che sembrano  vaghi simboli di improbabili misteri; – Anche Sergio Costa non va oltre l’elencazione di figurine (l’invasato, alcune ragazze),  spezzoni di conversazioni, lacerti di fotografie, ricordi, lavori, feste; – Meledandri esibisce un ottimismo giovanilistico di maniera, fa uso di un “noi” tutto generazionale per affermare una continuità carnale-parentale contrapposta alla cultura, che mi pare di corto respiro; – Micaletto  cerca brividi di morte tra l’oggettistica mercificata e di moda d’oggi: un affannato esorcista, che accumula un discorso tardo beat: parlato, impetuoso, mimetico, fluviale, falsamente impersonale.

9.

Per finire. Tutto omaggio affettuoso e rispettabile ma ben poca critica ho trovato nel discorso su Giuseppe Piccoli fatto dalla parente. Davvero una delusione. Quanto ai titoli delle  quattro sezioni (Sizigie, Plenilunio, Novilunio, Corpo celeste) mi paiono troppo astorici e cosmicheggianti, quasi volessero alludere – posizione poco o nulla condivisibile – a una poesia che se ne deve stare o andare sulle stelle invece che  tenersi a ridosso della storia e del presente. Troppo  brevi e neutre mi paiono poi le note di presentazioni degli autori, che preferirei più articolate e capaci di orientare il lettore più in profondità. Infine, sull’apertura del «Quadernario» ai poeti stranieri, mi chiedo perplesso quale sia il criterio con cui vengono scelti. La casualità, l’occasionalit? O esiste un orientamento abbastanza precisato? Non credo, per com’è combinata oggi l’Italia che si disponga di un quadro, sia pur approssimativo, della produzione mondiale di poesia. E allora sarebbe importante ragionare su quali aree bisognerebbe  cercare. E  con quale delle ottiche, di cui  oggi si discute almeno da parte di chi non  vuole restare chiuso in una visione da «patrie lettere», scegliere? L’europeista? L’occidentalizzante? Quella attenta agli studi postcoloniali?


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