Samizdat – Ho finito di leggere il Discorso su Dante di Mandel’štam che mi consigliasti. Vorrei parlartene.
Il poeta – Volentieri. Ti è piaciuto?
Samizdat – Mi ha catturato, anche quando non mi ha convinto. E poi non è che l’abbia capito in tutti i passaggi. Ma alcuni punti mi hanno davvero affascinato.
Il poeta - Conoscendoti, potrei indovinare quali sono. Ma è meglio che parli tu.
Samizdat – Il primo, che mi ha suscitato una risatina liberatoria, è quando definisce Dante «un poveraccio di antico sangue romano» (128). E aggiunge – ecco, ti leggo - «in tutta quanta la Divina Commedia egli non sa come comportarsi, dove mettere i piedi, non sa cosa deve dire, né come fare un inchino».
Il poeta – Allora c’ho azzeccato! E perché ti piace questo Dante imbranato?
Samizdat – Perché non sopporto il Dante dei professoroni. Che mi ha perseguitato dai tempi del liceo. Uno con la puzza sotto al naso. Uno nato imparato, già con la Commedia scritta tutta in testa già da quando, giovane, si distraeva con Beatrice e altre dame. Mandel’štam ha visto giusto. Quando ho letto questo pezzo: «L’inquietudine, l’imbarazzo, una penosa goffaggine accompagnano ogni passo di quest’uomo tormentato e braccato, insicuro, insufficientemente educato, incapace di mettere in pratica la propria esperienza interiore, di oggettivarla in un galateo» (128), mi son detto: ecco questo è il Dante che a me interessa. Il Dante poveraccio e imbranato di Mandel’štam assomiglia al mio, al poeta esodante, non al poeta-monumento, che viene somministrato da qualche secolo nelle aule dei licei italiani. Anni fa, in una discussione con un amico, parlai addirittura di Dante come profuga-migrante del suo tempo. E l’accostai ai suoi corrispettivi di massa odierni: quelli che sbarcano a Lampedusa.
Il poeta – Beh, sai quando è stata tormentata la vita di Mandel’štam. Ne ha messo di suo in quel Dante «poveraccio»! E tu vuoi fare lo stesso con un Dante «esodante» o «migrante»? Ma non l’avrai vinta tanto facilmente col Dante dei professori. Occhio, quello resisterà. Non è che il Dante-monumento non esista o sia un’invenzione degli accademici. Si è costruito accanto a quello imbranato. E vi ha contribuito proprio quel Virgilio-ragione, che Dante scelse come guida. E che, come spiega con ironia Mandel’štam, «interviene sistematicamente per correggere e raddrizzare il corso del poema, messo in pericolo dalle gaffes del suo protetto» (128). Comunque, anche per me Mandel’štam fece bene a porre in primo piano il Dante «poveraccio». E non solo perché ne aveva bisogno, visto che lui pure visse da «poveraccio» sotto la sferza poliziesca del regime stalinista. E in tempi ancora più bui di quelli di Dante. Purtroppo non trovò nessun Virgilio per tirarlo fuori dal suo inferno[1]. Ti consigliere però di calmare il tuo furore antiaccademico. Vedi che ci sono anche dantisti accademici stufi del Dante-monumento. Leggiti Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia di Emilio Pasquini. Ti accorgerai che ha lavorato a un’immagine meno statuaria di Dante.Ed ha mandato all’aria proprio il pregiudizio del Dante nato imparato, dimostrando che la Commedia è stata un work in progress, costruita cioè per successive approssimazioni.
Samizdat – Allora mi confermi la bravura e l’acutezza critica di Mandel’štam. Lui dice qualcosa di simile: «da secoli ormai si scrive e si parla di Dante come se il poeta si fosse espresso direttamente su carta da bollo. Il laboratorio di Dante? Non ci riguarda. Che importanza può avere per la sciocca venerazione degl’ignoranti? Si ragiona come se Dante avesse avuto davanti l’opera bell’e pronta ancor prima di mettersi al lavoro» (136)
Il poeta – Mandel’štam fa di più: ricorda che la prima stesura della Commedia non è stata trovata e fa persino un elogio delle brutte copie, che hanno la loro importanza. Anche se più per gli specialisti che per i lettori comuni. Ma qual è il secondo punto che ti ha interessato?
Samizdat – Ah, il secondo punto è il suo sguardo scientifico. Non ho mai creduto che poesia e scienza fossero due mondi separati o contrapposti, ma Mandel’štam me l’ha confermato. M’è piaciuta la sua polemica caparbia contro i simbolisti. Che poi vale anche contro i tanti che esaltano unilateralmente il cattolicesimo di Dante. Il Discorso su Dante è punteggiato da frecciate contro «lo sciocco culto del misticismo dantesco, privo, come ogni misticismo, di qualsiasi contenuto concreto» (132); o contro «la disgustosa leggenda che attribuisce immancabilmente a Dante tinte fosche e opache, il famigerato brunastro spengleriano[2]» (133).
Il poeta – Sì, Mandel’štam ama le cose concrete. Contrasta le interpretazioni mistiche, ma anche quelle allegoriche di Dante. Vuole strappare Dante a una sua presunta «misteriosità» (133). E porta a sostegno del suo punto di vista vari esempi, magari un po’ ingenui. Accenna a una miniatura della metà del Trecento, conservata nella biblioteca di Perugia. Vedete – suggerisce – che Trinità «rosea, rubiconda e rotondetta». E Dante? lo presenta come un «aitante giovanotto». E Beatrice? È «una ragazza vivace dalle guance paffute» (133). Nel commento attentissimo che fa del canto XVII dell’Inferno presenta Gerione come «una specie di carro armato superpotente». E accosta le sabbie roventi, dove gli usurai scontano la loro pena, ai deserti attraversati dalle «carovaniere dell’Arabia». E ancora: si sofferma sulla descrizione da vero pittore che Dante fa delle tasche degli usurai (134).
Samizdat – Eppure, quando parla di «chimica organica delle immagini dantesche, che nulla hanno a che spartire con l’allegoria» (135) o di «metamorfosi ininterrotta del substrato di materiale poetico», il discorso per me si fa difficile. Capisco che a lui interessa soprattutto la «materia poetica». Capisco che in Dante questa materia è reversibile o convertibile. Mai fissa, cioè, mai monotona. Ma poi fa un paragone stravagante. Parla di una sorta di aeroplano che, in volo, costruisce un secondo apparecchio, che, lanciato, «ha tuttavia il tempo di montarne e lanciarne a sua volta un terzo» (135). Questo farebbe Dante, sempre nel canto XVII dell’Inferno. Forse non sono in grado di stupirmi come Mandel’štam, ma trovo un po’ infantile tutto quel suo entusiasmo per quella successione d’immagini, che elenca puntigliosamente: «nodi e rotelle sul variopinto mantello tartaro di Gerione – drappi di seta e stoffe damascate sparse sui mercati del Mediterraneo – commercio marittimo, prospettive bancario-piratesche – usura – ritorno a Firenze attraverso le tasche stemmate, campionari odi colori inusitati – sete del volo, suggerita dall’orientale motivo ornamentale, che volge la materia del canto verso la novella araba e la tecnica del tappeto volante – infine nuovo ritorno a Firenze con il falco» (135-136).
Il poeta – Si sente in Mandel’štam un continuo sforzo per attualizzare Dante. Per tirarlo verso il Novecento. Per mostrare quante conquiste scientifiche Dante abbia intuito o afferrato, pur vivendo in quel Medioevo, che nel senso comune scolastico rimane una successione di secoli oscuri e superstiziosi. Lo provano le metafore che Mandel’štam sceglie. Dice che la composizione dei canti danteschi «ricorda l’orario di una compagnia aerea» (137). Vuole accostarsi alla Commedia «con il martelletto del geologo, per identificare la struttura cristallina del minerale di cui è composta, per studiarne la granulosità, l’opacità e le venature, per esaminarlo come si esamina un cristallo di rocca soggetto alla più variopinta casualità» (139). È preso dal suo immaginario scientifico. All’inizio del Novecento e nella Russia dei soviet la scienza era in cima ai pensieri degli intellettuali e dei poeti. E Mandel’štam ne è entusiasta. Cita con convinzione Lomonosov [3]: allontana il fenomeno e ne verrai a capo, lo dominerai. In un punto esclama addirittura: «Poesia, invidia la cristallografia, morditi le dita per l’ira e per l’impotenza. Infatti, le combinazioni matematiche che presiedono alla cristallogenesi non possono prescindere dalla tridimensionalità dello spazio. A te dunque si nega quell’elementare movimento di cui può valersi invece un pezzo qualsiasi di cristallo di rocca!» (141). Me ne trovi di poeti d’oggi così innamorati delle scienze?
Samizdat – Dunque – semplificando – ammira Dante perché lo vede come un poeta-scienziato, se dice: «Noi che strisciamo sui ginocchi davanti a un solo verso, che abbiamo saputo conservare di tanta ricchezza? Dov’è il suo erede, dove sono i suoi cultori? Che cosa sarà della nostra poesia, rimasta così vergognosamente indietro rispetto alla scienza?».
Il poeta – Sì, ma è lui stesso – Mandel’štam – poeta-scienziato. Perciò, secondo me, ha visto in Dante non tanto un precursore delle scienze - di lineare e continuo nella storia umana credo non ci sia nulla – ma un genio – qui la parola la devo usare – avvicinatosi per conto suo, per forza propria, «alla teoria delle onde sonore e luminose, affermando l’esistenza di un’affinità tra suono e luce» (152). Nel Paradiso Mandel’štam va a scovare «un vero e proprio balletto cinetico» (152). Parla di «danze sperimentali della Commedia». E, quasi sgomento per quello che scopre leggendo Dante, riassume: « Fa paura pensare che le accecanti esplosioni della fisica e della cinetica moderne siano state sfruttate seicento anni prima che ne risuonasse il rimbombo» ?(152)
Samizdat – Indagando sul Web, ho letto un saggio di Claudio Napoli. Questo studioso trova straordinario e sconcertante che, in una nota degli appunti non inclusi nel testo ufficiale del Discorso su Dante, Mandel’štam sostenga addirittura l’impossibilità di comprendere Dante senza la teoria dei quanti. [4] E poi mi hanno colpito anche i brani in cui accosta Dante a Bach. Ad esempio, quando riporta i vv. 25-42 del XXVI dell’Inferno [5], quello con del paragone delle fiammelle dei fraudolenti coi moscerini estivi, commenta: «questa ascesa mirabile, degna del genio organistico di un Bach» (139). O quando afferma che «i canti di Dante sono partiture scritte per una speciale orchestra chimica, nelle quali l’orecchio estraneo avverte particolarmente le metafore, equivalenti a parti d’insieme, e gli assoli, cioè le arie e gli “arioso”» (146).
Il poeta – Fa degli accostamenti davvero straordinari tra poesia e altre arti (musica, pittura)…
Samizdat – Però, devo dirti ancora una mia perplessità. Quando applica questa sua attenzione formale così spinta al Canto XXXIII dell’Inferno, mi pare che il suo distanziamento scientifico riveli un limite, una miopia, forse un’indifferenza emozionale. Non so come spiegare. Si sente che la vicenda di Ugolino non gli interessa, non ci spende quasi parole. Anzi ne sminuisce la crudezza : «la storia di Ugolino è uno di quegli aneddoti vaganti, un “baubau” per bambini, uno di quei piacevoli orrori che volentieri ci si racconta in un borbottio, rigirandosi nel letto per vincere l’insonnia» (147). Mette completamente tra parentesi il contenuto tragico della vicenda. E si lascia attirare esclusivamente dalla musicalità della forma, da quel «timbro violoncellistico, denso e greve come un rancido miele avvelenato» in cui il canto XXXIII è per lui «avviluppato». Dante non mi pare arrivi mai a questa “unilateralità formalistica”. Mantiene in equilibrio l’attenzione alla forma e quella al contenuto. Mandel’štam, invece, che a me pare indifferente o ostile ad una lettura contenutistica – quella, ad esempio, di quanti si lasciano commuovere esclusivamente dalla vicenda, dalla tragedia del padre e dei figli incarcerati e condannati a morire di fame - è attratto esclusivamente dalla forma musicale: «la voce di violoncello di Ugolino», i «tre figli-uccelletti, uno dei quali ha un nome acuto, violinistico: Anselmuccio» (147). Non nego che abbia una sensibilità particolarissima nel cogliere questo linguaggio musicale nei versi di Dante, ma trovo la sua sottolineatura esagerata, quasi maniacale; e un po’ ridicola e fuori contesto. Va bene, sì, contrapporre al vitalismo, al romanticismo la distanza scientifica, l’astrazione, l’attenzione alla forma, ma…
Il poeta - Dovrei dirti: ma è la poesia del Novecento, baby! Non dimenticare – l’abbiamo già detto – che Mandel’štam guarda la Commedia da «geologo», vi cerca la «struttura cristallina del minerale» (139), ama la «cristallografia». Senti ancora cosa dice: «Mi permetto una breve confessione autobiografica: i ciottoli gettati sulla riva dalle maree del Mar Nero mi hanno aiutato moltissimo a far maturare la concezione di questo discorso [su Dante, s’intende]. Ho chiesto apertamente consiglio ai calcedoni, alle corniole, ai gessi cristallini, agli spati, ai quarzi»( 155). E leggi pure qui: «Immaginiamo un monumento di granito o di marmo il cui intento simbolico non sia la raffigurazione di un cavallo o di un cavaliere, bensì la rivelazione della struttura intima dello stesso marmo o granito. Immaginate insomma un monumento al granito eseguito in granito per rivelare lo spirito informatore di questo materiale e avrete un’idea abbastanza chiara del rapporto fra forma e contenuto in Dante» (129).
Samizdat – Sì, sì, capisco. La figura quasi non conta più. Conta la materia di cui è costruita. Da qui all’astrazione dei quadrati neri o rossi alla Malevich il passo è breve. Ma a me pare che in questo modo Mandel’štam dimentichi una cosa che lui stesso scrive: che «Dante in pittura era di casa, era amico di Giotto» (134).E invece lo tira davvero troppo nel primo Novecento, non ti pare?
Il poeta – Certamente. C’è entusiasmo per la “visionarietà cubo-futurista” che guida la sua lettura di Dante. Guarda che lo dice: «Se le sale dell’Ermitage fossero colte da un’improvvisa follia e i quadri di tutte le scuole e di tutti i maestri si staccassero dai ganci, penetrassero l’uno nell’altro, fondendosi e riempiendo l’aria chiusa delle sale di urla futuristiche e di forsennata agitazione pittorica, l’effetto sarebbe paragonabile all’insieme della Commedia» (156-157). Aveva i polmoni pieni dell’aria nuova portata dalle avanguardie nella sua epoca – il primo Novecento - dal futurismo russo (nulla a che fare con quello degli italiani…), dall’acmeismo[6], dal formalismo,[7] anche se non partecipò direttamente, da “militante”, a questi movimenti culturali. E tutto ciò si sente anche nel Discorso su Dante. Pasolini, quando si occupò episodicamente di letterature slave, pur non conoscendo quelle lingue e scontando i limiti di chi si approssima a culture a lui ignote, colse però proprio nella poesia di Mandel’štam questa “passione per la forma”. E parlò di «stupore formale»[8]. La stessa attenzione che Mandel’štam mostra per la musicalità del verso ce l’ha poi anche per gli aspetti fonetici della Commedia. Arriva a dire che gli pare che «Dante abbia studiato con attenzione tutte le pronunce difettose: che abbia ascoltato accuratamente i balbuzienti, i biascicanti, quelli che non pronunciano certe lettere o parlano nel naso, imparando qualcosa da ciascuno» (148). E ci sarebbe da fare un discorso a parte sulla sua lode dell’asintattismo futurista, che serpeggia qua e là nel suo discorso: «la nostra stessa dottrina della sintassi non è che una pesante eredità della scolastica» (137); «la nostra estetica, schiava del pensiero sintattico» (138).
Samizdat – Sì, sì. Ho visto anche gli esempi che riporta da Dante: «cagnazzi – ribrezzo –guazzi – mezzo – gravezza» (149). Sono - devo dirtelo – prelibatezze per linguisti, caviale per letterati! Quanto alla sua polemica con la sintassi o il pensiero sintattico ti dico che non l’ho capita e un po’ ne diffido.
Il poeta – Qui viene fuori il tuo pregiudizio contenutista! Ma il tuo Fortini non ti ha avvertito che esistono due tipi di letture in poesia: quella signorile e quella servile?[9]
Samizdat – Vorrà dire che io mi atterrò di più alla lettura servile, e tu ti terraiquella signorile, magari di Mandel’štam o di altri…
Il poeta – Ammetterai, però, che è quella sua “passione formalistica” che gli ha permesso di fare un’affermazione sconvolgente sulla struttura della Commedia:«tutto il poema non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile» (131). Così, di colpo spazza via tutte le opinabili, ingenue o pedanti, dissezioni delle cantiche. E anche le amputazioni snobistiche che fece Croce tra pezzi poetici e pezzi non poetici del poema. È sempre quella sua “passione formalistica” che gli fa tentare l’atto impossibile di «abbracciare con l’occhio, o comunque raffigurarsi visivamente, questo poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità» (131).
Samizdat – Ammirevole. Ma è proprio così? Ascolta anche altre campane, per favore. Emilio Pasquini, il dantista che mi hai tu stesso nominato, sostiene che questo paragone con il cristallo perfetto «è un giudizio che vale soprattutto per il Paradiso, non altrettanto per le cantiche precedenti che non presentano tale aspetto di geometria cristallina, di struttura retta da perfetti rapporti numerici, con una così esatta simmetria o corrispondenza di parti» (232). E tira anche la poesia della Commedia – cosa che a me convince – verso la prosa: la scrittura di Dante «alle volte sembra possedere il “coraggio della prosa” specie nel Paradiso» (232). E insiste pure sulla «complessità sintattica» delle varie cantiche. Devi rassegnarti. Come vedi l’accordo degli interpreti non c’è o non è mai totale.
Il poeta – Vabbè! Direi di fermarci qui e riprendere fiato. ma ancora un’ultima citazione del mio Mandel’štam: «Leggere Dante è soprattutto una fatica interminabile, in cui ogni successo ci allontana ancora più dalla meta. Se la prima lettura dà soltanto il fiato corto e una sana stanchezza, per quelle successive bisogna provvedersi d’indistruttibili scarponi ferrati» (124).
Samizdat – D’accordo sulla tregua. Noi due, però, gli scarponi ferrati non ce li abbiamo.Se poi, oltre a leggere la Commedia , volessimo subito dopo leggere Mandel’štam, chissà che scarponi ci vorrebbero!
*Nota
I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine dell’edizione italiana del Discorso su Dante, che si trova in: Osip Mandel’štam, Sulla poesia, Bompiani Milano 2002
[1] Si può anche pensare, come mi ha fatto notare Antonio Sagredo, che negli ultimi anni della sua vita il suo Virgilio sia stato Dante. Resta il fatto amaro che la lettura della Commedia, che egli s’era portato a Samaticha prima di finire a Vtoraja Recka, un “campo di transito” presso Vladivostok, dove, secondo i biografi di Mandel’štam, egli morì per paralisi cardiaca nel dicembre 1938, giovò forse al suo spirito, ma non poteva evitargli sofferenze e morte. Un buon cappotto a volte protegge più dello Spirito Magno di Dante. Resta però da capire perché in certe situazioni terribili poeti e intellettuali si aggrappino proprio a Dante. Anche se gli orrori storici sono diversi, viene in mente che anche Primo Levi, in Se questo e un uomo, racconta di aver rafforzato in qualche modo la sua voglia di resistere e vivere nell’inferno del lager recitando e insegnando il canto di Ulisse a un giovane inserviente belga di un kapò.
[2] Il riferimento è a Oswald Spengler (Blankenburg am Harz, 29 maggio 1880 – Monaco di Baviera, 8 maggio 1936) è stato un filosofo, storico e scrittore tedesco Scrisse Il tramonto dell’Occidente (1918-1922).
[3] Michail Vasil’evič Lomonosov (in russo Михаил Васильевич Ломоносов) (Denisovka, 19 novembre 1711 – San Pietroburgo, 15 aprile1765) è stato uno scienziato e linguista russo. Per il contributo che ha dato alla cultura e alla scienza russa, per la spinta verso una modernizzazione della sua patria e per il ruolo che ha avuto anche a livello mondiale, viene spesso considerato il Leonardo da Vinci russo. Fu scienziato, naturalista, poeta.
[4] La nota riportata è la seguente: «(a/bis, p.379): “quanti” di energia poetica incapsulati in pacchetti di convertibilita’, che raggiungono il lettore e immediatamente si dissolvono, sprigionando reazioni chimiche che portano poi a formulare immagini e simboli di sintesi. Tale sintesi tuttavia, proprio in virtù del suo carattere utilitario di comprensione, non ha più nulla a che vedere con la forza primigenia del “quanto” poetico». (http://www.humnet.unipi.it/dlfm/fileadmin/template/main/drsu/Claudio_Napoli_settembre.doc
[5] Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, 26. 26 nel tempo che colui che 'l mondo schiara 26. 27 la faccia sua a noi tien meno ascosa, 26. 28 come la mosca cede alla zanzara, 26. 29 vede lucciole giù per la vallea, 26. 30 forse colà dov'e' vendemmia e ara: 26. 31 di tante fiamme tutta risplendea 26. 32 l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi 26. 33 tosto che fui là 've 'l fondo parea. 26. 34 E qual colui che si vengiò con li orsi 26. 35 vide 'l carro d'Elia al dipartire, 26. 36 quando i cavalli al cielo erti levorsi, 26. 37 che nol potea sì con li occhi seguire, 26. 38 ch'el vedesse altro che la fiamma sola, 26. 39 sì come nuvoletta, in sù salire: 26. 40 tal si move ciascuna per la gola 26. 41 del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, 26. 42 e ogne fiamma un peccatore invola.
[6] L’acmeismo è un movimento letterario russo che nato nel 1910 ebbe termine alla fine della seconda guerra mondiale. Il suo nome deriva dal greco acmé (culmine). Nacque in opposizione al simbolismo, sviluppando una diversa tematica e un nuovo stile espressivo fondati sulla chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti e sullo studio dei valori formali del verso.
[7] Il Formalismo russo è un’influente scuola di critica letteraria che si sviluppa tra il 1914 e il 1915 a Mosca e Pietroburgo, in particolare nei centri culturali delle due città: l’Opojaz (“Società per lo studio del linguaggio poetico”, attiva dal 1917) ed il Circolo Linguistico di Mosca (fondato nel 1914-1915).
[8] Pier Paolo Pasolini, «Tempo», 3 dicembre 1972.
[9] «Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto – due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti». (http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html#more