Ennio Abate«La poesia “dovrebbe” essere» (Risposta a S. Cardarelli)

Da Ennioabate

@ Stefano Cardarelli, commento del 7 dicembre 2013 alle 13:26

Caro Stefano,
credo di aver risposto già a questa tua obiezione nella discussione svoltasi su LE PAROLE E LE COSE. In particolare nel commento rivolto a .dp. che riporto sotto in Appendice. Lì ho spiegato in che senso intendere quel mio « la poesia “dovrebbe” essere».
Aggiungo, in più, che anche il mio « Si tirassero fuori le colpe. Si dicessero i nomi dei devastatori» andrebbe inteso – primo gradino – come un invito, sì, a scrivere anche delle buone “poesie-volantino”. Brecht lo sapeva fare. E tentare di imitarlo non mi scandalizza affatto. Perché, oggi più di ieri, i poeti schizzinosi e “formalisti” sono proprio convinti che certi contenuti, per loro “abusati” o troppo “prosaici” e sui quali neppure più si informano o cercano di capire, non devono mai più entrare in poesia. Ma il mio invito – secondo gradino – è anche quello a misurarsi in poesia (e qui va in primo piano la questione del linguaggio, del dare forma a certi contenuti, che non dovrebbe mai essere assente neppure nelle “poesie-volantino”!) con i significati, di cui certi contenuti sono solo la spia, il sintomo.
Ammetto che «Si tirassero fuori le colpe. Si dicessero i nomi dei devastatori» può sembrare una formula generica. Non basta, infatti, tirarle fuori e dire i nomi. Non basta la poesia “di denuncia” o la “poesia-volantino”. Bisognerebbe che anche in poesia si fosse in grado di capire e smascherare i poteri che condizionano profondamente le nostre vite e, non dimentichiamolo, il nostro linguaggio (comune, letterario e anche poetico).
Tu fai bene a ricordare, come esempio negativo, gli “Ultimi Versi” di Giovanni Raboni contro il signor B. Che, quando uscirono, mi parvero generici quanto quelli di Pusterla oggi. Politicamente e poeticamente, però. E non solo poeticamente, come tu dici. Perché io resto ancorato all’idea fortiniana che «cultura [e poesia, aggiungo io con le dovute precisazioni, che qui salto…] e politica sono la medesima cosa, espressa con mezzi diversi».
A Raboni e Pusterla, perciò, non imputerei tanto o soltanto di aver fatto «pessima poesia», ma piuttosto di non essersi fatta – come cittadini-poeti, se vogliamo – attraverso letture, discussioni ed altro una visione più esatta di come stanno le cose nel mondo d’oggi (che comprende inevitabilmente anche la politica). Né di aver raggiunta tale visione più esatta mediante la loro ricerca poetica. Perché la poesia ha un suo valore conoscitivo autonomo. Non è, dunque, semplice traduzione in versi di esperienze vissute e/o di saperi storici, filosofici, economici o altro già accumulati. (La Commedia non è la Summa di san Tommaso in terzine). Voglio perciò dire che moltissimi (compresi i poeti) in quanto cittadini hanno abboccano alla visione falsa della politica fornitaci da TV e mass media. Come se il cosiddetto problema della “crisi” consistesse nello scegliere tra berlusconismo e antiberlusconismo (errore che imputo a Raboni); e cioè tra due vere politiche alternative e contrapposte, mentre entrambi gli schieramenti hanno dimostrato una medesima incapacità o non volontà di affrontare le radici economiche, strutturali e strategiche della crisi; e sottostanno a diktat di “ordine superiore” (europei-statunitensi per intenderci). Si è visto così che, sia quando al governo sono andati i berlusconiani sia quando ci sono stati gli antiberlusconiani, la crisi italiana non ha fatto che aggravarsi.
Ai poeti – ripeto – non rimprovero solo di aver anch’essi abboccato a questa visione, ma anche e soprattutto di non saper dire in poesia il dramma storico (di crisi, di smarrimento, di degrado, di imbarbarimento) che stiamo vivendo. Fosse pure parlando solo di rose o fiori è quello che dovrebbero farci intendere!
E la ragione di questa insufficienza a me pare stia proprio nel rivendicare, come purtroppo anche tu fai, «il recinto artistico» (o «il suo valore artistico»), intendendolo come « spazio nel quale uno ha diritto all’aristocrazia malinconica».
Eh, no! Non vogliamo e non possiamo «emendare il mondo» (azione, tra l’altro, che mai i poeti da soli potrebbero fare; e che non si vede più – per ora o per sempre non so – chi possa realizzare). Non possiamo, anche se lo volessimo, «imporre alla poesia ciò che essa deve essere». (Perché a chi oggi verrebbe in mente di imporre qualcosa in un campo del tutto marginale e quasi fuori gioco nella vita sociale? Non siamo mica nell’Urss di dopo il ’17, quando i poeti futuristi contavano qualcosa nell’opinione pubblica anche politicamente; e ne fecero tragicamente le spese…). Ma possiamo, per un minimo di decenza morale, prendere atto che è illusorio credere che ci resti uno spazio – la poesia – dove sia possibile fare «solo ciò che ci è congeniale». (Quanta falsa coscienza politica nel Fellini da te citato, geniale, sì, ma non certo per questa banalissima affermazione!). In realtà lo spazio residuale della poesia resta prigione e ghetto, condizionato nella sua struttura – il linguaggio poetico appunto! – dalla stessa storia che tramortisce i non poeti (gente comune, lavoratori, immigrati, ecc) . Possiamo  però almeno non decorare questa nostra prigione, questo ghetto (niente affatto dorato, ma percorso da spinte in contrasto tra loro). Un compito (impossibile forse)  ci  resta: quello di uscirne.

P. s.

Nell’esodo, dunque.
La tana di sempre sfondata.
La gabbia approntata da secoli
aperta, finalmente deserta…

(E.A. La pòlis che non c’è, 2013)

 
APPENDICE
Commento di Ennio Abate su LE PAROLE E LE COSE
2 dicembre 2013 alle 11:38
@ .dp.
Intendiamoci sul mio « la poesia “dovrebbe” essere» e sulla sua «astuzia dell’arte». Se lei accoglie la seconda, e cioè dà spazio a un’intenzionalità del fare poetico, non mi pare molto lontano dalla mia posizione.
Il campo della poesia sarà specifico quanto si vuole, inconfondibile da quello della politica, ma comunque mai è “naturale”, “spontaneo”, “selvaggio”, “anarchico”, “libero” nel senso in cui comunemente questi termini vengono usati. L’arte (la poesia) non nasce come un albero. (E poi, dacché l’umanità ha cominciato a calpestare questo pianeta ed è passata all’agricoltura, anche gli alberi sono stati curati e indotti a crescere in certi modi e non in altri).
Dire che «si scrive di ciò che si può, di ciò che si ha la forza o la sfortuna di conoscere » significa per me assimilare troppo il fare poetico a un processo che pare vada per conto suo o sul quale nessuno – direttamente o indirettamente – interviene a condizionare, a spingere in una direzione o in un’altra. No, i poeti non sono come un pero che produce e può produrre solo pere.
E poi i poeti migliori si sono sempre dati da fare per scrivere di cose *che non conoscevano* o non conoscevano bene. In poesia si va sempre un po’ oltre certe colonne d’Ercole che paiono insuperabili. A volte quasi inavvertitamente o magari cercando di rispettare meticolosammente la tradizione. A cominciare da Dante, che ci ha parlato dell’adilà mentre era ancora vivo. Né mi pare che Kafka sia dovuto passare prima per un lager o sia stato un inviato speciale di qualche grande giornale in Siria o in Afghanistan per dire *in poesia* un orrore che tanto assomiglia a quelli storici.
Se, dunque, oggi i poeti hanno escluso o escludono dal campo della poesia certi temi (mettiamo «le colpe, i devastatori, gli egiziani»), ritenendoli non poetici o dichiarando di “non sentirli” o non sapendo più farli entrare neppure indirettamente o allegoricamente in poesia, e preferiscono scrivere «di ciò che si può, di ciò che si ha la forza o la sfortuna di conoscere», non è che li voglio costringere a salire su un gommone di migranti in arrivo a Lampedusa o ad andare a vivere in un campo di Gaza. Chiedo però a me e a loro se questo fare poesia “privata o “semiprivata” o che non è più capace di misurarsi con la storia (anche senza parlare di storia, di guerre, di migranti che affogano, ma trattando delle solite rose o dei soliti alberi) non sia l’accettazione rassegnata e suicida di una cecità *politica* procurata. E se, invece di essersi fatti «astuti come colombe», non si siano ridotti a gallinelle che starnazzano solo nei pollai consentiti.
Sulla «morte della borghesia» ho già risposto a Baretta rimandando a testi che anche i poeti *dovrebbero* pur studiare. Perché certe letture “extracurriculari” farebbero intendere meglio a cosa si sia ridotto oggi il «privilegio borghese» del fare poesia e perché i poeti più seri si affannino appunto attorno all’«ipotesi che la poesia sia in una fase storica di assoluto ripiegamento o esaurimento». Ma prima di sentirsi troppo facilmente decadenti, senescenti o di aspettare i barbari, proprio mentre facciamo questi ultimi giri di giostra, perché non far chiarezza su questa crisi?
Sulla diversa interpretazione della poesia di Pusterla non insisto. Ho detto la mia e ammetto che mi possono sfuggire certe intertestualità che lei ha subito colto. Ma io parlo da *lettore critico*., non da *critico di professione*. Guardo la poesia *da lontano*, pur praticandola, e non ho il tempo per analisi del testo fatte in modi più elaborati, da cui sono pronto ad imparare). Perciò trovo un po’ professorali quei suoi «dovrebbe saperlo», «se ha letto» , «Fortini le insegnerà», «Ha letto Un posto di vacanza di Sereni?». Capisco che non sono consigli da spocchioso. Ma dico lo stesso: E se non avessi letto e non sapessi, non dovrei parlare, non dovrei esprimere con una qualche decisione quello che è al momento il mio punto di vista? Fosse pure la mia una «lettura pregiudizievole» o «fuori luogo», ritengo che possa comunque offrire l’occasione a chi si suppone sappia di più e meglio per degli approfondimenti motivati. (Tra l’altro lei sa che il mio e il suo Fortini, in un incontro che facemmo assieme ad alcuni amici nella sua casa di Via Legnano a Milano negli anni Ottanta : «Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando»? ( Cfr. http://www.backupoli.altervista.org/IMG/CARTEGGIO_Fortini_Abate.pdf).
Sinceramente farei volentieri la parte del tonto, se lei facesse bene quella del filosofo.
Ultime precisazioni minime. Non ho detto che i testi di Kafka e Walser siano consolatori. Ho trovato consolatorio o, peggio, imbalsamatorio l’uso che una certa accademia ha fatto di questi due autori (a me cari). Né ho detto che il solipsismo della poesia di Pusterla sia ingenuo.
Per finire, è proprio sulla valutazione di quel «tanto “mondo” fuori del testo» a cui rimanda Pusterla che forse divergiamo di più. Per un «poeta residualmente lirico», come lei pare lo consideri, si potrebbe dire che egli sia già oltre il solipsismo. A me, come ho cercato di dire riferendomi soprattutto all’evocazione della tragedia di Kabobo, quell’affacciarsi verso l’orrore del mondo pare, con tutto rispetto, ancora timido. Ma il discorso non lo rivolgo al solo Pusterla ma a tutti (me incluso). Infine, grazie dei dubbi che mi ha offerto. Li aggiungo a quelli che già ho.


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