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Ennio AbateSulla grandezza di Dante(e di Mandel’štam). Coda di discussione n.1: @ Buffagni

Da Ennioabate
arlecchinoIl commento di Roberto Buffagni a cui replico si legge qui

Caro Buffagni,

davvero «signore è chi, nel conflitto, affronta la morte, servo chi vi si sottrae»? Ho l’impressione che Hegel abbia, sì, sintetizzato la storia delle società umane del mondo antico che portò alla loro scissione in classi (signori e servi), ma truccando molte carte e molto idealizzando. Oggi poi, di fronte alle società ben più complesse emerse dalla rivoluzione industriale, ‘signori’ e ‘servi’ mi paiono concetti alquanto metaforici, da usare con cautela. Usiamoli, ma teniamo conto che i “signori” – settori delle società nazionali più o meno internazionalizzate che, semplificando, potrebbero rientrare in queste categorie hegeliane – godono di beni, prestigio e consenso non perché più coraggiosi o più capaci di affrontare la morte, ma per aver ereditato dai loro antenati posizioni di grande vantaggio e di immenso potere rispetto ai “servi” (ceto medio in via d’impoverimento, neoproletariato, poor workers).Possiamo ipotizzare che ai primordi della storia le cose si posero proprio come dice Hegel? Non ho sufficienti competenze in antropologia per sostenerlo o smentirlo. Ne dubito. E credo che, anche se risalissimo al mito, inverificabile come si sa scientificamente, i dubbi rimarrebbero. Con questo non voglio ironizzare sul grande filosofo  tedesco. Non riesco però ad immaginare questa fila di uomini,  da cui escono come in  un concorso a premi i pochi destinati a diventare signori perché in grado di sfidare la morte, mentre gli altri ( le solite masse!) si rassegnano al ruolo di servi. Non è, cioè, sul piano del coraggio (o soltanto del coraggio) che nella storia sono stati decisi i rapporti sociali tra gli umani. Questa la mia convinzione. Vedo, piuttosto, gruppi umani (popoli, classi, ceti) contrapposti ad altri in nome di valori ideali, ma mescolati  inestricabilmente a interessi materiali (chiarirlo è stato merito immenso per me del marxismo); e pronti, sì,  in situazioni estreme createsi nel gioco complesso dei conflitti e delle riappacificazioni, a darsi reciprocamente la morte. E vedo che quasi da subito certi gruppi hanno conquistato posizioni di forza (economica, politica, militare), ma mai per ragioni puramente morali o psicologiche. Mai si potrà dire poi che i coraggiosi siano stati solo da una parte – quella dei signori che avrebbero affrontato la morte – e i vili solo dall’altra – quella dei servi che vi si sarebbero sottratti. Direi anzi che ci saranno stati molti servi coraggiosi (magari disposti anche ad affrontare la morte per uscire dalla loro condizione), ma rimasti inevitabilmente servi, proprio perché non è bastato solo il coraggio e mancavano le  condizioni e le circostanze favorevoli per realizzare quel loro desiderio di libertà.  Nella lotta contro i signori, militarmente e culturalmente più attrezzati e potenti – penso a Tommaso Müntzer e alla guerra dei contadini nel primo Cinquecento – non ce l’hanno fatta. A diventar signori? A ribaltare i rapporti sociali diseguali e a costruire un “mondo migliore”? Lascio in sospeso queste due domande che riprenderò tra un attimo. Non possiamo affidarci soltanto al coraggio (Achille?). Dobbiamo sapere (o imparare faticosamente)  come combattere, quando  attaccare o indietreggiare o persino fuggire, ingannare il nemico, tessere alleanze, ecc. (Ulisse?). E poi credo che conti lo scopo per cui lottare. Sì, forse più o quanto il coraggio e le altre abilità.

E qui riprendo le due domande: Si lotta per diventare signori? Si lotta per ribaltare i rapporti sociali diseguali e costruire un “mondo migliore”(Liberté, Égalité, Fraternité)? E so di incappare subito nel nodo etico/politico  di sempre. Che oggi o viene eluso e accantonato (coi discorsi idealistici sulla pace, la fratellanza universale o la democrazia liberale). Oppure viene riproposto  esclusivamente in termini che definirei “signorili”. Credo che quasi tutti oggi condividano l’idea che si lotti o si possa lottare soltanto per «diventare i primi su questa terra», proprio come tu scrivi. E,cioè , per uscire da un assoggettamento (reale e/o immaginario)  nell’unica maniera realisticamente possibile: assoggettando altri, quelli che oggi ci assoggettano. E con la prospettiva probabile che un domani altri ci assoggetteranno. Non c’è altra via. L’aveva capito benissimo Manzoni: «Ad innocente opra non v’è: non resta/ Che far torto, o patirlo». (Adelchi, 1822).  Questa tesi ha per me i tratti esclusivi del pensiero realistico “signorile”. Oggi domina incontrastata nel pensiero politico. Perché i “signori” dominano come sempre. Perché le lotte che veramente contano sono tra loro (dominanti e sub dominanti, come dice G. La Grassa). E  la ricerca di un “mondo migliore” è pensabile  al massimo entro questo quadro “signorile” (imperiale o policentrico).

Possiamo spiegare questa  egemonia del pensiero politico “signorile” con il fallimento storico  della lotta per il comunismo e la caduta della sua ipotesi forte: che la lotta tra le classi fondamentali (per Marx  borghesia e proletariato) potesse portare all’abolizione delle classi stesse; e quindi al superamento della incessante lotta tra signori e servi; e all’uscita da quella che Marx considerava preistoria. O almeno alla riproposizione del conflitto di sempre su un piano più controllato, meno “bestiale” (il Mao delle” contraddizioni in seno al popolo”; ma anche, sul versante del pensiero democratico, le teorie dello Stato di diritto).  Cancellata l’ipotesi comunista (sia nella forma utopica che in quella scientifica marxiana), resta sul tappeto  soltanto  questa ipotesi di una lotta interminabile tra signori e servi (alias: dominatori e dominati), da cui usciranno per forza di cose solo altri dominatori e altri dominati. (Tu stesso, nel pezzo che hai scritto su «Poliscritture» n.10, ci hai avvertito: le guerre ci saranno sempre; cioè ci saranno sempre signori e servi, dominanti e dominati e – per collegare la questione al tema Dante/Mandel’štam – grandi uomini e piccoli uomini).

Se le cose stanno così (o staranno inevitabilmente così per sempre), se  la possibilità di  fuoriuscire da questa storia non esiste più (o ci sono e saranno solo fuoriuscite ideali, artistiche, simboliche), se essa si ripeterà sempre secondo lo schema plurisecolare dei vincitori e dei vinti, bisognerà ammettere che l’unica politica possibile è quella dei signori. (Come corollario, a livello letterario, a me pare che deriverebbe che l’accento deve stare sul Dante-monumento da te difeso). Una politica “di servi”, che riscattando se stessi, riscattino persino i signori dal compito – ingrato ma necessario (perché le crisi e le ribellioni mai mancheranno) – di dominare, sarebbe definitivamente una frottola o una  credenza consolatoria. Il fallimento della rivoluzione socialista/comunista ne sarebbe l’ulteriore prova.

Che fare di fronte a questo fallimento? Mancando la possibilità di un pensiero e un’azione  politica capace di scompaginare questo quadro storico e in attesa che, io vedo per ora e per quanti non vi si rassegnino un bivio etico. E colgo l’importanza simbolica della nostra piccola discussione su Dante monumento/ Dante poveraccio. Che mi ha spinto a  verificare le mie origini sociali, l’esperienza interrotta e fallita negli anni Settanta di superarle con una scelta politica (in senso ampio “comunista”), sull’assenza di un noi come soggetto collettivo  in cui identificarmi oggi. Che è un po’ entrare, come tu suggerisci, in  «rapporto con la morte (la tua, eh? quella generica non vale)». E  a concludere: non posso scegliere  la via dei “signori”, quella che oggi appare l’unica, non posso rinunciare alla «morale di subordinato, di servo», quella  che  Fortini consigliava in un passo che riporto in Appendice. Sì, «una morale di servo è, da noi, meno immaginaria di una da signore». E, sempre per tornare all’argomento della nostra discussione, non mi sento di rinunciare a pensare a una grandezza accessibile unicamente per la via del servo, del «poveraccio» (da qui ancora la mia simpatia per Mandel’štam). Anche se non intravvedo una politica di  riscatto e non sento più in questa condizione subordinata le potenzialità che il cristianesimo  (idealisticamente) e Marx (scientificamente) avevano intravisto. Non si tratta di preferenza. Si tratta di realismo (“da servi”, di chi sta nella condizione reale dell’assoggettato). Quella del signore non mi è mai appartenuta. E credo che la stessa qualità poetica del mio o “nostro” «modo di essere o scrivere o cantare» dipenderà non  tanto dal mio «rapporto con la morte» (Vedi quanto in proposito ho scritto  in Poliscritture n. 10), ma proprio dalla capacità di scegliere  anche in poesia una morale  di servo (di «poveraccio», di “poeta esodante”), come atto estremo di resistenza.

Passando, infine, alla tua affermazione:«“Il disonor del Golgota”, vale a dire la vidimazione al Massimo Livello dello stigma servile (compresa la paura di fronte alla morte) è [stato] un bello sparigliamento delle carte signorili», ti faccio notare  che nella storia questo «sparigliamento» è stato presto recuperato, neutralizzato e ricondotto ancora una volta alla visione dei signori (all’ingrosso da Costantino in poi…). E aggiungo che, se scrivi: « questo sparigliamento davvero sovversivo funziona solo nella misura in cui la partita si gioca ancora con le carte signorili», rendi un omaggio  solo ideale a tale sparigliamento, perché di fatto lo riconduci – consapevole o meno – nell’alveo di sempre. Sostieni, cioè, anche tu che l’unica politica ( e forse l’unica morale) che conta è quella dei signori. I quali  l’hanno praticata a seconda delle convenienze come crociati, come liberali, come fascisti, come democratici.  E pure – lo ammetto senza difficoltà – come comunisti.

APPENDICE

 F. Fortini, Avere ragione, pagg. 102-103 in Insistenze, Garzanti, Milano 1985

A un giovane che me ne chiedeva ho consigliato di scegliersi una morale di subordinato, di servo; come credo di aver fatto io. Con quel tanto di equivoco e magari di ripugnante (come l’invidia, il rancore, l’intenzione di dominare umiliandosi) che ogni morale di servo comporta. La ragione di quel consiglio? Anzitutto che una morale di servo è, da noi, meno immaginaria di una da signore; almeno per chi viva alla periferia dell’Impero. Basta riflettere all’impegno che i nostri signori e i loro delegati mettono a persuaderci che, via, siamo anche noi ormai parte del mondo dei signori. Il che, in una certa misura, è vero. Sganarello, infatti, mangia, dorme e beve molto meglio del cavallante, del contadino o del poveraccio per il quale il suo padrone stanzia (in Molière), per la lotta contro la fame nel mondo e «per amor dell’umanità», una certa cifra «purché bestemmi il Signore» cioè la propria cultura e verità. Che dico, Sganarello fruisce anche della cultura e delle agevolazioni tariffarie di Don Giovanni e deve buona parte della propria astuzia alla conoscenza degli splendori mondani cui partecipa indirettamente. Eppure, di un servo non ci si può mai fidare; e questa è grande superiorità, la cui rinuncia non consiglio a nessuno.

C’è qualcosa che tuttavia il servo non possiede: l’ironia e la leggerezza. Il servo ha solo riso e sarcasmo; sempre, in qualche misura, plebei. Nulla di più doloroso dell’apostolo della leggerezza, Nietzsche, incapace di danza, e condannato alla più tremenda serietà. Eppure – contro l’opinione corrente – dubito che l’ironia e la leggerezza siano davvero sempre supreme virtù (o privilegi signorili). Sono virtù; ma secondarie. Esse infatti non possono essere praticate se non in gruppo, fra pari.

Insomma, la morale del servo è anche quella che ti consiglia insistenza e petulanza, offerta di spiegarsi meglio e di porgere scuse. («Si spieghi meglio!». «…Disposto … disposto sempre all’ubbidienza».) Docenti, moralisti, pedagoghi, preti, psicanalisti, funzionari di partito, d’ogni sorta addetti alla manutenzione delle anime, tutti costoro – dei quali certo faccio parte – sono perpetuamente esposti al disprezzo signorile degli spiritosi libertini ma sfuggono tuttavia di mano a questi ultimi perché la loro verifica è sempre altrove, è qualcosa che è sempre un oltre, metafisico o storico, un dover essere, un «verrà un giorno …». Mentre lo spiritoso libertino ha tutto interiorizzato; ha o crede di avere tutti in sé i propri diavoli e angeli; è costretto all’ateismo («pèntiti!», «no!») e all’autoinganno dello stoicismo. Don Giovanni non può essere «serio come il piacere». «Sarò serio come il piacere» è locuzione di Baudelaire; l’altro infelice apologeta dell’ironia e della leggerezza, grande anche per la sua incapacità di essere ironico e leggero.

Il giovane se n’è andato, com’è giusto, scuotendo il capo. Spero di avergli lasciato, almeno, una spina fastidiosa. Nella loro pressoché integrale ignoranza del nostro passato e al di là dell’abisso profondissimo, quasi insuperabile, di quest’ultimo decennio, ho la certezza, non per fede ma per ragione, che si stiano formando anche nel nostro paese – e forse proprio attraverso una maggiore frequentazione del mondo dei padroni – delle minoranze che possono assumere deliberatamente una morale di servi per uscirne nella sola direzione capace di fondare, come sempre è stato, una aristocrazia vera; facendosi cioè disinteressati e, al bisogno, sacrificali difensori dei più, delle folle accecate. Il loro primo moto sarà, anzi già è, di seppellire sotto lo scherno le false aristocrazie, straccione o snob, che si riproducono nella nostra cultura nazionale.

 

 


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