Enrico Barbieri - Provincia - Giuliano Ladolfi Editore, 2015
Di Enrico Barbieri ho già scritto qualcosa (v. QUI), in occasione del suo libro "Il tremore della terra", edito da CFR nel 2014. In quella circostanza avevo espresso delle perplessità, che riguardavano soprattutto una certa discontinuità, e forse timidezza o ritrosia nel dire, che dava un andamento rapsodico al libro. Torno sulla scena del "delitto" con questo secondo o forse terzo libro soprattutto perchè sono convinto che, a differenza di molti, Barbieri nella poesia ci creda, non sia un atteggiamento e nemmeno una mera necessità (concetto quanto mai ambiguo). Dalla prima impressione mi pare che alcuni "vuoti" siano stati riempiti, segno che Enrico qualche riflessione l'ha fatta, e un minimo si è messo in discussione. Vuoti che non erano tanto "orizzontali", cioè determinati da una ispirazione vagante tra le occasioni, quanto piuttosto "verticali", ovvero dovuti ad uno scavo (come si diceva una volta) ancora molto da fare su quella stessa ispirazione. C'era insomma, secondo me, la necessità di andare più a fondo, non solo nel materiale da trattare, ma anche nella stessa scrittura. Credo che Enrico l'abbia fatto, magari prendendo un po' di petto quella materia. Ricordo che tra i commenti al post del febbraio scorso, Davide Castiglione aveva accennato, tra le altre cose, a un certo "maledettismo un po' autoriferito", cioè, se avevo ben capito, qualcosa di "posato", una rabbia un po' torva ma "da poeta" nei confronti di un dolore ingiustificato, immeritato e dalla responsabilità generica e sfumata. Per la verità non ne avevo visto molto, in quel libro, forse perché Barbieri non ce l'aveva messa quella rabbia (ma una "rabbia di razza", come dice adesso), o non ne aveva messa abbastanza. Ma credo che anche in quel caso si trattasse semplicemente di una ritrosia non ancora passata all'esame di un più consapevole lavoro poetico. La verità è che nessuno, davvero, ha un'idea chiara del reale vissuto di un autore, a meno che non ci si metta a fare un lavoro d'indagine che nessuno oggi fa più. Difficile dire, alla fine, se quello che ci colpisce è la "verità" o solo qualcosa di ben recitato (non dimentichiamo che Barbieri ha anche esperienza teatrale). Resta il testo, e la lingua con cui è scritto. Che poi tutto si riporta alla lingua, che deve essere personale (e quella poetica più che mai), e a ciò che da essa traspare. Dico questo perché, a differenza del precedente, in questo libro mi pare di vedere una diversa cognizione, una messa a fuoco del cosa e del come, in altre parole una misura. Che non smorza però la vis, la nota dolorosa ma non dolente, il sentimento della mancanza di senso in molti accidenti della vita, l'incapacità di salvezza per sé e per chi si ama e anche l'incazzatura, questa sì, per una realtà sociale sempre più disfatta, una provincia pavese che non è solo geografica ma anche specchio di una marginalità dell'individuo, di una provincia dell'anima. In effetti non c'è distanza, a ben vedere, tra le tematiche che impregnano questo libro, che brevemente individua Giulio Greco nella prefazione, tra la dolorosa ma quasi rassegnata osservazione della moglie malata (certo i testi più "forti" e commoventi) e quella niente affatto rassegnata dei mali, descritti anche con sarcasmo, della società locale, tra il tratto lirico di certi richiami naturalistici e la descrizione icastica, in funzione di simboli, di personaggi incontrati tutti i giorni. Tutto rimanda alla fondamentale solitudine del singolo, certo esistenziale, ma anche direi come unità politica disorganizzata, o forse consapevolmente anarchica, o di dropout per scelta, a cui la figura dell'autore - "in parte un pazzo in parte normotipo" - tende a sovrapporsi (ma non voglio certo dire che in lui la poesia sia vita e viceversa). E' in questo senso dilatato che interpreto la "provincia" di Barbieri. Quel che è interessante è che tutto ciò non ha bisogno di circonvoluzioni sintattiche, di torsioni, di ricorsi all'indefinito, di lessico ricercato, né di metri o forme particolari. Il discorso è diretto, anche apodittico, e perciò, per dirla in soldoni, tutt'altro che crepuscolare, il verso è libero, e la vena mi pare aperta. Se il livello emotivo continua ad essere controllato, come se Barbieri volesse stabilire una superiorità e una distanza "autoriale", mi pare invece che sia stata abbandonata una certa "oralità" di cui avevo parlato la volta scorsa, che questa cioè sia una poesia che non cerca tanto la scena (in senso metaforico) quanto la comunicazione as is, così com'è, senza tante storie, senza stare a cercare tra le tante parole, come gli avevo scritto in privato, quella "giusta", ma senza tuttavia tralasciare di dare un corpo, un nome, alle "cose". Certo, niente di innovativo in una poesia di questo tipo, semplicemente perché non ce n'è bisogno. Ma secondo me ha, più di tanta poesia "civile", una concretezza che un po' oggi si è persa e che è bene ritrovare ogni tanto. E che cerca, come avevo suggerito ad Enrico, di rispondere alle domande: che cosa voglio dire? e come? Che non è mica poco. (g.c.)
Mia Moglie
Avvicinereste un corpo morente
dal volto intriso di sangue,
pulsante di sentimenti
che odono il corpo e lo vedono?
Cos’è questo disgusto di fronte
a un corpo malato una volta amato
quasi giudice del mio futuro?
Ho paura di te, ma ricordo tutto;
davvero sono umano, come te
e ho paura
Steppenwolf
La fame mi sembra poca, tutta dentro
e i miei amici non so dove siano.
Sarò tra migliaia senza casa, forse,
e intanto ci dividiamo e ringhiamo,
mentre chi ha battenti dorati
grida avanguardia.
Io sono un lupo, sono un cane,
sono il cane malato senza padrone
con rabbia contagiosa e folle fame.
Siberia pavese
Parlo con il gelataio di via Olevano,
conosce a memoria la Divina Commedia,
tutta, da cima a fondo come uno scandaglio.
Si lamenta che Pavia muore, che la provincia
italiana è come un budello nero
e che il sole è solo un’illusione per ricchi.
Poteva andare peggio:
potevo nascere a Rostov, nella neve,
pieno di vodka fino a pestare mio figlio;
potevo nascere nella Boston dei poveri
a lavorare nei docks, da mane a sera e bere
per dimenticare la pancia di mio padre;
potevo avere altri lutti oltre a questi
e a quello che sta per arrivare,
quello numero tre che si annuncia
dalle colline e scende limpido e fresco
come un serpente o un ramarro,
un ratto del naviglio.
Si fa vedere il terzo lutto,
dico al gelataio, che annuisce
e commenta che c’è gente che non rivolge
parola agli amici per anni per un post
su un social network o per un litigio.
Saluto il mio amico e pedalo verso il centro,
il Duomo è illuminato, ma non è la Casa
o quella cupola con un immenso foro in mezzo.
Pavia, la sterminata Siberia italiana, è già morta in perpetua ritirata
lastricata da nemici che ha nel suo corpo secco.
Pavia e la morte
Vedo il figlio di mia zia, scomparsa,
che cammina per Pavia
sicuro di Burberry e posizione.
Mi ha visto nascere, crescere e dire idiozie;
ora cambia strada e sparisce.
Lo sterco delle capre, col loro
giro immenso per tubuli contorti,
ha più intelligenza
di un pavese parente nel suo
Burberry da campo di lavoro.
Il bar eterno
Seria, in un dubbio di primavera,
nel bar del mio demone ricreatore:
Maresa, con la sua gioia anziana
di vivere e amare fino allo stremo,
una donna di settant’anni mi chiede.
“Come è possibile che lei, così
interessante e bello, non trovi nessuno?”.
Dico che come i cani fiutano il cancro
forse le donne, legate alla terra,
riescono ad annusarmi il fallimento
o una morte testosteronica
o l’assoluta solitudine cretina.
Pago, rido, esco, ma nessuno ritorna.
Ostracismo comunale
Folate di vuoto portano paura e fumo.
Io osservo gli stormi indecisi nel gelo.
La pioggia minuta non dà fastidio,
non fosse che la mia mano è vuota:
i semi sparsi sul cemento urlano
che non è qui, non doveva esserlo;
dall’aria in cui affogo naviga il richiamo:
vuoto di ottoni e di fiati, vuoto di tutto.
Amore anziano
La notte va via,
tieni la mia mano:
ti ho amata sempre.
La notte va via,
sarà breve, sempre
lo è stata per noi
quando ci amavamo
prima della malattia.
Nulla e Naviglio
Nulla è se non il vincolo del vuoto
questo odore di fuoco che sale al futuro,
il fianco freddo e paziente, braccia
stese a lutto e sole da sempre;
nulla è se non il fumo di noi che andiamo
come fossimo solo fervida corrente.
Cancro al fegato
Sono cresciute carni in più
a quella che era la mia sposa.
Lei entra nella mia stanza
e mi ricordo degli afrori in fiamme,
l’amore fino all’eccesso
e il corpo che non aveva paura.
Tra poco finirà la vita
e i ricordi saranno percosse.
Così è dato, così per sempre.
Quello che era amore, ora è cancro
Il marciapiede ha chilometri d’ascesa
come sotto Lubenice, anni fa e
io non so più parlare lingue altre;
siano fatica e rimorso e secchezza
l’ossatura di una strada piena d’aria
e le farfalle che ci circondavano
con regate lontane nel golfo, spettri
di grifoni a centinaia e gli strapiombi
tra un sasso e l’altro delle strade.
Frusciano e sgambano i dementi
Frusciano e sgambano i dementi
e intanto cresce il grano sul ciglio
del Naviglio senza che serva
a qualcosa o a qualcuno; un ictus
sarebbe più utile di queste forme
innocue di vita, gentili, bramose d’aria.
E come niente sono calpestate
dal sole, dalla gente, dai cambi rossi
di quei barconi trainati dai muli
centocinquanta anni fa, con decenza.
La fine
La violenza ha il corpo di un ragazzino
che si sporca giocando.
Sa di sputo e di cazzotti in bocca, ma
con la grazia di chi fa l’avvocato
eletto senatore.
La violenza qui non è maiuscola:
soffia tra l’erba piccola, nata
troppo presto, col frignare dei grilli.
È l’ombra di un gruppo di ragazzi
che sta dando la caccia a un loro eguale.
I sindaci giocano a Lego,
nel buio e nel silenzio.